"Le storie servono alla poesia, alla musica, all'utopia, all'impegno politico: insomma all'uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché in apparenza non servono a niente: come le poesie e la musica, come il teatro e lo sport... Servono all'uomo completo e, vorrei aggiungere, a completare un uomo."
Gianni Rodari


domenica 4 aprile 2010

Il nido pensile





L’uomo camminava sulle radici e sui tronchi con una destrezza invidiabile. Ormai non faceva più nemmeno caso al baratro che si apriva appena sotto. Era da tempo che non metteva il piede in fallo, che non rischiava di cadere, ed era da ancora più tempo che non gettava l’occhio laggiù, nel nero fondo del nulla che aveva sotto i piedi.

Un giorno di molto tempo prima la terra aveva tremato, proprio là dove l’uomo stava costruendo la sua casa. La terra aveva tremato e uno scisma colossale si era portato via il terreno da sotto i suoi piedi. Ad essere precisi s’era ingoiato tutta la casa e gran parte della foresta che c’era lì attorno. L’uomo allora era caduto. A corpo morto era caduto: giù, lungo il crepaccio incommensurabile. E mentre cadeva aveva gettato le mani alla rinfusa, afferrando qua e là delle radici che ancora sporgevano dalla parete del burrone. Le prime si spezzarono, restandogli tra le mani segnate. Altre nemmeno si accorsero della sua presa. Altre ancora invece lo aiutarono a rallentare la caduta, fino ad arrestarla. Il fondo della terra spaccata era così nero da non riuscire a vedersi, e l’uomo aveva tremato con ogni muscolo, con ogni cuore, con ogni goccia di sudore che ancora gli restava. Di scatto aveva strappato lo sguardo da quel terrore, volgendolo verso l’alto, costringendosi a non vedere quello che lo aspettava dietro le spalle e sotto i piedi, se solo avesse perso la presa. Coi denti, le unghie, gli alluci, le ginocchia e i gomiti, alla fine, cominciò una lunghissima risalita.

In verità era caduto così a fondo che il tempo impiegato per conquistare qualche tratto verso il bordo del precipizio fu lo stesso impiegato dalle radici e dalle piccole piante a strapiombo per crescere e diventare arbusti, e poi alberi. Così radice dopo radice e ramo dopo ramo, l’uomo aveva avanzato verso il bordo, sempre più vicino. Successe però che, piano piano, l’uomo smise di arrampicarsi e cominciò a spezzare e tagliare rami e tronchi e liane per sistemarli come meglio poteva: all’inizio per facilitare l’ascesa, poi per cercare acqua e ristoro, più in là per fermarsi a riposare. Ecco allora che le radici e le liane e gli alberi che avevano frenato la sua caduta divennero col tempo il suo nido pensile.

Ora l’uomo camminava sulle radici e sui tronchi con una destrezza invidiabile. Tempi e giorni e stagioni gli erano occorse per acquisire quell’abilità: di ogni pezzetto di legno sapeva soppesare la portata con uno sguardo e laddove percepiva una mancanza - o laddove ci fosse anche solo il minimo sospetto di riuscire a intravedere il nero vuoto sottostante - l’uomo correva istintivamente ai ripari ponendo nuovi rami, nuove travi, nuove liane. Il rifugio era diventato tanto immenso e articolato da toccare l'altro lato del burrone, mentre l’uomo passava le sue giornate a saltare da un ramo all’altro per sistemare, qui e là, questo o quel pezzo. Fu proprio durante una di queste operazioni che successe. Arrivando per rinforzare un pavimento ancora troppo sottile, l’uomo poggiò rami e frasche su uno dei rami portanti: con uno schianto il ramo si spezzò. Con un soffio sordo e frusciante, gran parte della pavimentazione del rifugio fuggì verso il baratro.

E l’uomo si ricordò della terra che aveva tremato. Della terra che aveva ceduto. E fissando finalmente il baratro fin nella sua anima scura e senza fondo, l’uomo cominciò ad alleggerire il nido.




lunedì 22 marzo 2010

Incroci






Ci sono cure che non sono coccole.
E ci sono coccole che non sono cure.
E ci sono coccole che son cure che son coccole.


Ci sono incroci che non sono bivi.
E ci sono bivi che non sono incroci.
E poi ci sono bivi che sono incroci che sono cammini.


E quando ti ci trovi, non puoi fare altro che staccare i cartelli,
e portare con te le direzioni del mondo. Ovunque tu scelga di andare.




mercoledì 10 marzo 2010

Neve tardiva





Se la ricordava bene, la neve tardiva. Era quella neve soffice, farinosa e bianca da far male agli occhi. Era quella neve che ricopriva tutto tranne che le strade, quasi che rimbalzasse da terra per afferrarsi ai cornicioni, ai pergolati e alle tegole, lassù in alto. Era quella neve che entrava inaspettata nel bavero alzato dei cappotti di primavera, appena sotto alla tesa dei cappelli leggeri. Quella neve che riusciva ad alleggerire la mente e il corpo, stanchi per la frenesia di passioni che pare si risveglino ai primi canti di marzo, ma che in realtà si sono mosse fino a ieri sotto il manto invernale e che altro non han fatto che alzare il capo ai primi truffaldini raggi di sole, odorosi di fango ed erba verde.


Qualche giorno prima aveva camminato in riva al fiume. Il freddo non gli impediva certo di gustarsi lo scorrere frusciante dell'acqua trasparente: pareva, anzi, che la rendesse chiara come vetro, profonda come diamante. Accanto al greto ricolmo di sassi scuri, proprio sotto la riva franata e alta che dava sul bosco di querce, aveva trovato una risorgiva: sgorgava lenta e discreta dalle radici degli alberi sbilenchi e penzolanti, con quell'acqua gentile che inverdisce e schiarisce i dintorni di dove s'accumula. La pozza era ricolma di verdi piantine, come un tappeto sommerso che lasciava di tanto in tanto intravedere quella primavera di sassi colorati e di radici tenaci che di lì a poco avrebbero contagiato con la loro tenerezza anche i dintorni lontani del bosco.


Se la ricordava bene, la neve tardiva. Che tardiva non era, e che anni prima ricopriva bosco, fiume e campagna con molta più tenacia di quanto non pretendesse ora. Ogni tanto alzava il naso al cielo, apriva la bocca e lasciava che quella turbinante pace bianca gli baciasse il cuore.


venerdì 5 marzo 2010

Una sostenibilità tutta da raccontare






Un paesino della bassa varesotta, perso tra boschi ricolmi di maneggi e tralicci dell’alta tensione nemmeno fosse la provincia ‘mericana: è qui che stiamo portando avanti un progetto di “sensibilizzazione alla sostenibilità” . La struttura è complessa, le tematiche affrontate sono tantissime e sicuramente non aiuta la ligia aderenza alle ore concordate - che le prof non smettono mai di farci notare. I ragazzi faticano ad entrare nell’ottica, sentono il tutto come calato dall’alto e si sforzano mille volte più del necessario.

C’è bisogno di uno stacco, una riflessione forte, un coinvolgimento in prima persona, qualcosa di immediatamente realizzabile ma strutturalmente significativo: non bastano le fotografie raccolte, le testimonianze trascritte e le esplorazioni in giro per il paese; dobbiamo allargare la partecipazione, aprirci al consenso e alle espressioni “di pancia”.

Così decidiamo di mandare all’aria la scaletta e di improvvisarci Cantastorie, noi e loro.

Stamattina arriviamo a scuola di buon’ora e spostiamo i banchi come al solito, ma ci dividiamo in gruppi e occupiamo quattro aule anziché una sola. Poi cominciamo un serrato fuoco di fila “maieutico” sulle tematiche che abbiamo affrontato finora: Consumi, Mobilità, Inquinamento, Verde Urbano – ovvero: acqua, energia, cibo, traffico in paese, pedibus, piste ciclabili, rifiuti nei boschi, cestini strabordanti, aeroporto troppo vicino e troppo ingombrante, gente che brucia mucchi di plastica negli orti, il parco comunale costantemente devastato, boschi e campi mangiati dalle villette a schiera.

Per ogni tematica, i ragazzi prendono spunto da episodi accaduti realmente o da situazioni che desiderano fortemente cambiare… Poi, all’improvviso realizzano che non dovranno semplicemente mettersi a scrivere o a raccontare, ma dovranno inscenare quello che hanno immaginato. Gli occhi si accendono, l’odore dei dodicenni che si scaldano riempie l’aria, i sorrisini si sprecano e le urla di emozioni incontenibili fanno tremare i vetri.

L’entusiasmo è tale che la Preside decide di partecipare e mi chiede spiegazione del perché un gruppetto di alunni stia prendendo a calci un armadio urlando cose indicibili, Stiamo lavorando sulla sostenibilità: inscenano una situazione di vandalismo e degrado sociale le dico. Scuote la testa e balbetta qualcosa mentre se ne va: forse avvilita, forse solo stanca.

Alla fine, ecco che cosa questi ragazzi hanno da raccontare:

Vandali in Via Isonzo. Un gruppo di ragazzotti dediti alle bombolette e allo sfascio delle altalene si vota alla ricostruzione del parco, perché...

Batticuore in bicicletta. Zig-zagando avventurosamente tra le automobili con la sua bicicletta una ragazza incrocia l’amore della sua vita: sarà ricambiata o morirà stirata dalle gomme del tamarro locale?

Il Pedibus lo facciamo nostro! Per un gruppo di scolari il pedibus organizzato dagli esperti è una bella idea, ma così com’è non fa per loro. Forse se…

Una passeggiata nella spazzatura… Girando per i boschi col nonno e il fratellino, una bambina inizia a raccogliere tutta la spazzatura che trova. Ne raccoglie tanta da…

Le luci di Malpensa e i Cucù di Via Roma. Storia di come l’inquinamento luminoso dell’aeroporto tenga svegli gli uccelli e di come questi tengano svegli alcuni padri di famiglia, pronti a sparargli…

Non si sente niente! Una telefonata tra amiche è interrotta dall’assordante passaggio dei cargo in decollo e atterraggio.

Ma… Piove gasolio!?! Il carburante degli aerei e gli effetti nefasti sugli alberi… dal punto di vista degli alberi!

Plastica in fumo! Diatribe di cortile scatenate dalla strana usanza locale di bruciare quintali di plastica nei campi, in barba a qualsiasi legge o buonsenso.

Viva le brocche! Cronaca di una rivoluzione per l’uso dell’acqua pubblica nella mensa scolastica.

Partecipazione e condivisione riconquistate. Progetto ampliato e migliorato esponenzialmente. Alcune storie sono state inscenate già questa mattina, altre andranno smussate e provate. Tutte saranno filmate e montante in un video, allegato al documento chiave del progetto originale “Il Manifesto per la sostenibilità a Casorate”.



Ripensare i consumi?







Quella cornacchia maledetta non la smetteva di ridere.
L’aveva cantata in tutte le lingue conosciute, quanto era buona e succulenta quell’uva, e certo la volpe che stava passando di là non si era persa una parola. Tanto che aveva provato per ore a saltare in alto, in alto per cercare di afferrarne anche un solo, piccolo, succoso acino. Purtroppo non c’era davvero niente da fare: era troppo in alto, e a furia di saltare, prima una zampa messa male, poi il muso che sbatte contro il vitigno, poi un sasso tra le unghie… insomma si stava davvero conciando per le feste. E quella dannata cornacchia ormai aveva smesso di decantare le proprietà del frutto per sbeffeggiarla sempre più rumorosamente.

- Perché al posto di ridere così tanto, non te la mangi tu l’uva, visto che è così buona?
- Perché… Perché… Perché… Perché mi diverto di più a vederti saltare come un pagliaccio, volpona!

La volpe ci pensò su qualche secondo, poi una luce gli balenò in fondo allo sguardo.

- Bah, secondo me non è poi così buona, la vedo da qui… a guardar bene si direbbe marcia!
- Marcia? Macchè marcia! Non vedi com’è lucida e brillante?
- Ti dico che è marcia. Me ne vado, testa vuota!
- E io ti dico che no! Dove vai? Guarda! Guarda!

La cornacchia, indispettita calò un artiglio sull’uva e un grappolo cadde per terra, dove prima c’era la volpe, che ormai si stava allontanando lungo il filare. Vedendo che nemmeno quello attirava l’attenzione del quadrupede, la cornacchia scese a terra, prese il grappolo e, volando, si portò davanti al muso bianco e arancione.

- Vedi! Guarda, guarda se non ci credi!

La volpe vide benissimo. Tanto bene che con un balzo chiuse le fauci attorno al cuore della cornacchia, spiumandola con uno sbuffo e facendone un sol boccone. Poi prese due chicchi per sé e portò il resto alla tana.


mercoledì 24 febbraio 2010

Hic et nunc,
o Gli esistenzialismi "ecologici"





Secondo le più recenti Teorie per la Sostenibilità, il principio che più si tende a dimenticare nella nostra società è quello dell'Entropia - secondo il quale l'energia utilizzata per compiere un lavoro diventa quel lavoro solamente in parte, mentre per l'altra parte è dispersa in calore non riutilizzabile.

Se si ha a che fare con un Sistema aperto - come lo è un ecosistema locale, ovvero un Sistema in grado di ricevere dall'esterno sia energia che materia - il problema quasi non si pone: materia ed energia saranno trasformate in modo da ricalibrare l'equilibrio interno anche davanti a grandi cambiamenti (secondo i principi della resistenza e della resilienza).

Se si ha a che fare con un Sistema chiuso - com'è il nostro Pianeta, ovvero che riesce a scambiare solamente energia con l'esterno ma non materia - allora il problema dell'entropia è più cogente: con l'apporto energetico è possibile trasformare la materia, ma senza apporto di materia prima o poi quella che è stata usata non lo sarà più. Qui il gioco è capire che le materie non sono infinite: non essendo possibile smettere di utilizzarle, sarebbe necessario trovare altri modi per farlo come ad esempio la creazione di materiali riutilizzabile e riciclabili, etc...

Sia in un caso che nell'altro, però, l'importante è capire che c'è un problema di efficienza: materia ed energia non possono evitare di essere usati, trasformati e dispersi, ma possono esserlo secondo criteri di risparmio energetico - non tanto per aumentare il lavoro svolto, quanto per evitare che molta dell'energia vada persa in calore.

Ultimamente sto ragionando in termini di "entropia emotiva, affettiva e psicologica" - per così dire. E mi sono reso conto non tanto del perchè, ma sicuramente del come in questi anni io mi sia sentito sempre così in tensione, in apprensione, in pericolo, in costante affanno.

Ho passato anni ad oscillare tra quello che ho e quello che desidero, mettendoci tante di quelle energie emotive, affettive e psicologiche da riuscire ad ottenerlo - solo per poi partire all'inseguimento di qualcosa d'altro: senza prendermi il tempo di assaporare quello che ho tra le mani, senza prendermene cura, senza vederne nascere qualcosa.

E' così che ho voluto l'amore, lo ottenuto e poi ho desiderato la libertà e l'ho ottenuta, e poi ho rivoluto l'amore e l'ho avuto ancora, per poi desiderare l'amore e riconquistare la libertà: in un balletto assurdo tra nostalgie e rimpianti per il passato perduto, devastante per me e per chi mi ha subito.

Quello che voglio è mettere un un po' di sostenibilità anche nella mia vita. E ripartire da quello che ho desiderato ed ottenuto - che è disponibile Qui e Ora. Per godermelo a fondo, finalmente, dedicandogli il giusto tempo, le giuste energie emotive, affettive e psicologiche: nulla di più, nulla di meno. Che il resto è tutta energia risparmiata o spesa per i marginalia, altrettanto importanti. Il desiderio d'altro, se nascerà, non sarà più in contrapposizione, ma un'evoluzione naturale, nata da queste esperienze di cura e dedizione del e nel presente.




domenica 14 febbraio 2010

Ordinariamministrazione







Una mail letta lunedì mattina mi porta fuori casa per la notte, dopo una giornata di Associazione e progettazione-a-spron-battuto, e prima di un turno alla Casa delle Ragazze Cresciute - con risultati malvissuti da me e da chi mi aveva scritto. Così rientro alla tana martedì sera, solo per finire di cucire assieme un incontro sulla depurazione dell'acqua da presentare mercoledì in giornata, alla fine del quale ritirarmi dal mondo, ringraziare gli amici del liceo che mi hanno tirato il pacco per la sera e sprofondare nel futon, tagliando fuori anche l'ennesima bionda scomoda. Collasso del tutto e prendo fiato, così giovedì mattina riprendo la via delle Ragazze Cresciute fino a tarda notte, per risvegliarmi all'alba di venerdì, cancellare l'incontro settimanale per l'Aula in Giardino, e mettermi in marcia verso Bergamo, dove faccio avanti e indietro tra mille segreterie e librerie, Città Alta Citta Bassa Stazione Fontane Funicolare Viottoli, per questa nuova follia che è la Specialistica. La sera riesco a vedere il mio fratellino, e mi faccio due chiacchiere di quelle che scaldano il cuore, così dormo beato fino alle otto di questo nebbioso e freddo sabato mattina, quando mi ritrovo sulle sponde del Fiume Azzurro in attesa di una troupe televisiva che deve girare un'avventura farlocca: la ciurma arriva tardi, la Barbie deve truccarsi e ci mette dueoredue - e si stira anche i capelli. Sceso dal gommone mi faccio una doccia rapida, torno alla Casa delle Ragazze, dormo un'ora e comincio il turno pome-sera-notte che mi porterà a domattina. Intanto ascolto Gianmaria Testa e festeggio il San Valentino più stupido della mia vita.








mercoledì 3 febbraio 2010

Oggi va così





Oggi va così.




Oggi va così. Un pomeriggio scarico, di quelli che quando sei un gatto dedichi a lisciarti il pelo affondanto in un piumone, ché non hai penne di gabbiano da inseguire per il giardino o gatte arancioni da tenere a bada.

Oggi va così. Un pomeriggio scarico, di quelli che ti arriva una mail e qualsiasi cosa tu volessi fare va a pallino, perché vorresti mettere insieme un sacco di parole ma non sai preciso-preciso né cosa né come rispondere, perchè scrivere con la pancia è sempre troppo arzigogolato.

Oggi va così. Un pomeriggio carico di cruda tenerezza, di quelle che disarmano e ammutoliscono, un po' come i disegni di questo signore, autore del dipinto qui in alto.




lunedì 1 febbraio 2010

Il tempo permesso







Per noi che viviamo di fantasiose camminate e avventurose discese tra flutti colorati di bianco e verde e azzurro, la stagione alta si inaugura con le prime passeggiate di gennaio e le timide discese di fine inverno.

La neve imbianca ancora il paesaggio e fa rimbalzare la luce tra i sassi e le nuvole basse. Il silenzio è come ovatta per i sensi e le foglie morte sul terreno hanno perso la voce: al contrario dell'acqua, che salta e corre col rumore del cristallo inondato dal sole. La vegetazione è scarna e gli alberi sono alti scheletri, scuriti e smagriti dal contrasto con tutta quell'apocalisse di luce e silenzio.

Il freddo è pungente e paralizza la sensibilità delle mani, che a sgonfiarle tocca bere cioccolata per tutta una sera. E dopo la fatica, le orecchie si scaldano di un rosso appuntito e la pelle si liscia, i muscoli tirano e la stanchezza si ferma tra gli stinchi e le ginocchia, come fosse la febbre.

Al ritorno nel mondo normale, poi, un sottile pensiero allontana il senso di colpa quelli che sembrano doveri non affrontati, e una voce nella pancia ci dice che Sì, il tempo che ci siamo permessi - alla fine - ce lo siamo meritato.


mercoledì 27 gennaio 2010

Lettera aperta ai soci, o “Del perché scelgo la promozione sociale”






Ieri mattina, aprendo la stagione dei sopralluoghi, noi “Itineranti di Base” ci siamo addentrati in un campo piuttosto spinoso.

Guardandoci in faccia, per l’ennesima volta, ci siamo detti che per quest’anno tutto il tempo e la fatica che stiamo investendo sulla neonata Associazione va in volontariato. La cosa era risaputa fin dall’inizio, solo che gli interrogativi aumentano anziché diminuire e i lietmotiv di consolazione non sono che mantra di concentrazione.

Sono state fatte tante ipotesi, ma alla fine il problema si è rivelato un problema sì economico, ma più strettamente politico, o meglio filosofico – finanche teleologico: il nostro scopo è l’educazione ambientale fine a se stessa, o è la promozione sociale attraverso l’educazione ambientale?

Così, parlando come uno dei fondatori più che da presidente, ho chiesto a me stesso e a tutti noi:

Vogliamo fare dell’Educazione ambientale la nostra professione, e quindi entriamo in un discorso imprenditoriale agendo, come Associazione profit, non più “nel Sociale” bensì “nel Mercato” - puntando al guadagno e legandoci al fatturato, bilanciando tempo ed investimento personale per far quadrare i conti e permetterci uno stipendio senza tetti, senza che nessuno possa dir nulla del nostro operato;

o vogliamo fare dell’Educazione ambientale un mezzo attraverso il quale far emergere le nostre professionalità e le potenzialità dei soci per la creazione di Reti sociali, collaborazioni creative non lucrative e socialmente “proattive” – affiancando ad un investimento personale del tutto volontaristico un “soldo” che sia onesto, dignitoso e giusto, rimettendo il nostro operato all’Assemblea dei Soci alla fine del mandato?

Ci sono pro e contro in tutt’e due le visioni. C’è la dignità del lavoro e del lavoratore in entrambe. C’è la necessità di mettersi in gioco nell’una e nell’altra. Ecco perché non è una domanda banale. Ecco perché la risposta non è scontata…

… A meno che tu non creda che l’Educazione ambientale non sia solo qualcosa che “va di moda”, una specie di “macchina per far soldi”, un “modo diverso per fatturare” o un “bel lavoro”, ma un modo eccellente per ricreare reti sociali ormai sfilacciate.

… A meno che tu non sia schifato dall’essere entrato in questo ambito capendo al volo che i “competitors” giocano a farsi lo sgambetto per accaparrarsi più scuole, per tagliarsi fuori a vicenda dai bandi, per sbugiardarsi ad ogni piè sospinto – mentre predicano la sostenibilità sociale, economica e ambientale.

… A meno che tu, proprio per questo spirito mercantile imperante, non sia un soggetto anomalo, che riparte sempre da zero.

… A meno che tu - nonostante gli affanni economici, le distanze incolmabili e i doppi lavori– non abbia la certezza che lucrare su un Ideale non fa per te.

In questi casi ti accorgeresti che la risposta che ti dai e che ti sei sempre dato – con la pancia, col cuor e col cervello – è proprio la seconda.

E allora che Promozione sociale sia.

E che sia fatta bene: equamente, onestamente e con la massima apertura.





lunedì 25 gennaio 2010

Mattini innevati






Mattina di neve fine e leggera, freddo da guanti e sciarpa, campagna aperta tra un fossato colmo d'acqua limpida e una cascina trasformata in Spa per novelli yuppi ecofriendly.

Con me c'è una delle Ragazze Cresciute. L'accompagno al suo primo stage lavorativo. Il contrasto tra i suoi DrMartins d'acciaio, il fango attorno alle vacche e la piscina con idromassaggio è quantomeno singolare.

Nel silenzio della neve che scende e dei passi che la impastano, le nostre voci basse e addormentate:

- Oh, tipo, ma lo sai che visto da dietro sembri Mosè?

- Chi, quello delle acque?

- No, quello di Lupo Alberto.

-...



sabato 23 gennaio 2010

Quel che resta del giorno





Alla fine di questa giornata rimane ciò che è rimasto di ieri e ciò che rimarrà di domani; l'ansia insaziabile e molteplice dell'essere sempre la stessa persona e un'altra.

Da "Il Libro dell'Inquietudine di Bernardo Soares" di Fernando Pessoa.



venerdì 8 gennaio 2010

Passaggi e paesaggi







Ancora una volta, l’anno vecchio si sedeva al limitare del bosco e passava al nuovo la sua tracolla, ricolma di promesse ancora fresche.

La carovana aveva trovato un buon posto dove sostare, le genti avevano trovato selvaggina per conciar pelli e cucinare, e pareva che i giovani stessero mettendo da parte alcune delle ritrosie e delle arie che si erano dati all’inizio del viaggio, e avessero cominciato a fare la corte alle fanciulle del campo.

La neve certo non facilitava le cose, anche se rendeva tutto assolutamente più romantico. Lavarsi era parecchio fastidioso, ad esempio, ma con il fiume gelato i ragazzi portavano le fanciulle sulle rive innevate e le invitavano a sentire il rumore dell’acqua che scorreva ancora: se poggiavano la mano nuda sulla superficie, per qualche secondo, ne sentivano le vibrazioni sul fondo. E le ragazze ritiravano le dita scaldandosele col sorriso e le guance rosse.

La carovana era in viaggio da molto, e i padri e le madri non avevano idea di dove i loro vecchi volessero condurla. Ma i vecchi sembravano sapere dove stavano andando, e cantavano la strada richiamandone i punti di riferimento con le loro voci profonde e levigate. Ogni tratto di nuovo cammino era scandito dalle loro parole, dai loro volti e dalle loro mani, rivolte ad indicare questo albero contorto o quel versante rosso della montagna: la via era segnata, i volti del mondo gli sorridevano. Sarebbero tornati per poi ripartire.

La notte, i fuochi del campo illuminavano di giallo e oro i tetti dei carrozzoni, disegnando a terra larghi cerchi di terreno senza neve. Lì attorno le madri e i padri si raccoglievano, stanchi ma contenti: le prime buttavano della paglia in terra e i secondi accordavano gli strumenti. I vecchi richiamavano giovani e fanciulle. E la musica cominciava al passo delle danze, o le danze incominciavano al passo delle note.

L’anno nuovo era cominciato, infilandosi la tracolla e voltandosi per riprendere il cammino.



mercoledì 6 gennaio 2010

Natale, l'altro ieri.






C'è che in queste vacanze natalizie, parlando con le Bimbe Cresciute è saltato fuori il discorso di Babbo Natale. Ma tu ci credi? mi chiedevano. Non è questione se ci credo o no, è questione che l'ho incontrato, spiegavo. E mentre lo spiegavo, dicevo E' proprio così.

E lo potevo dire perché nella mia vita di piccole cose dolci come incontrare Babbo Natale, me ne sono successe un'infinità. Me ne capitano in continuazione.

Cose un po' come sentirti la pancia piena di emozioni perchè ti è capitata una domenica di marzo inoltrato in pieno inverno.
O un fine settimana proprio di martedì, tra montagne straniere nascoste dietro l'angolo, ad esplorare e assaporare sentimenti che stavano sotto la cenere.

Non è questione se ci credi o meno, è che l'hai vissuto con la pelle e la pancia: al sole delle parole, al sole degli sguardi, al sole delle tazze di thé e biscotti alle due del mattino, al gusto di baci sentiti, al profumo di odori che non se ne vanno per giorni.

Un po' come se Natale fosse sempre l'altro ieri.
E tu sei lì che te lo rigiri tra le dita come un fiocco rosso.

E sorridi melone.



giovedì 24 dicembre 2009

Nella Casa delle Coccinelle








L’avevano chiamata La Casa delle Coccinelle perché c’erano le coccinelle. Erano in tre e se ne stavano rintanate per l’inverno sotto vecchie tende e vecchie coperte in quella vecchia casa.

Le coccinelle erano saltate fuori svolazzando, quando i nuovi inquilini - pretendendo di rinnovare l'ambiente - le aveno accidentalmente distolte dal loro sonno. Imbufalite per il disturbo, avevano subito fatto capire che da lì non se ne sarebbero andate tanto facilmente.

Una aveva occupato l’ultimo piano della libreria, minacciando di volersi buttare giù. Un’altra s’era messa proprio di fianco al frigo, e intimava che se l’avessero sfrattata si sarebbe lasciata morire di freddo buttandosi nel congelatore, la prima volta che lo si fosse lasciato aperto. L’ultima aveva scelto di nascondersi tra gli scatoloni del trasloco al grido di:
Il-nuovo_che-avanza_ti-cambia-copriletto?
Tu_ Coccinella_Su!-fagli-lo-sgambetto!

Insomma, sembrava proprio che da lì non volessero schiodarsi. Erano tre, ma facevano più casino degli operai FIAT quando occupano la Milano-Laghi fuori da Arese. Così, la direzione degli inquilini si decise a mandare avanti un delegato per avviare una trattativa.

Le coccinelle però avevano inteso che quella era solo una manovra degli invasori, e mandarono a monte gli incontri.

Com’è noto, le coccinelle per comunicare usano i gesti, ma non come gli umani che gesticolano con le mani, la testa e a volte le dita: loro gesticolano con le ali, sei zampe, due antenne e quei bellissimi gusci pieni di pois che racchiudono le ali. Una trattativa di quella portata, tuttavia, avrebbe necessitato incontri tête-à-tête: chiamandole a trattare una per volta finiva che quelli le avrebbero messe una contro l’altra, e non avrebbero potuto nemmeno mollare i rispettivi presidi, che sarebbero subito caduti nelle mani del Nemico Invasore.

Insomma, gesticolando, le coccinelle si convinsero che era il momento di provare il tutto per tutto, e optarono per il modello francese. Col favore delle tenebre, abbandonarono in silenzio i loro presidi e si ritrovarono svolazzando in mezzo al salone. Si misero in formazione d’attacco silenzioso e ronzarono all’unisono fino alla stanza da letto principale. Laggiù dormiva l’Invasore.

Entrate nella stanza, le coccinelle schiantarono la porta alle loro spalle. Il clangore spaventevole svegliò di soprassalto l’Invasore che dormiva impunito. Compagne, addosso! Le coccinelle si avventarono su di lui intimandogli Nel nome del diritto alla casa, del diritto al sonno, del diritto all’asilo politico contro il Generale Inverno, ti prendiamo in ostaggio fino alla tua completa e incondizionata resa!

Immobilizzato nelle coperte dalle tre coccinelle per una notte intera, l’Invasore non potè più nulla. Anzi, le sue grida richiamarono ragni e cimici, che si sporsero sospettosi dai loro buchi e si avvicinarono più sicuri quando capirono che cosa stava succedendo. A quel punto, l’Invasore capitolò e riconobbe il valore dei Diritti Inalienabili delle Coccinelle e degli Esseri a più zampe, sottoscrivendo il Trattato di Convivenza che ancora oggi prevede la libera circolazione degli esseri a due o più zampe all’interno dei locali e nelle immediate vicinanze del balcone.

Fu allora che la chiamarono La Casa delle Coccinelle. E il nome rimase.

giovedì 17 dicembre 2009

Una passeggiata Oltremanica






Il ragazzo era in cammino dalla mattina, qualche ora prima.

Avrebbe preso un treno e poi la metropolitana, deciso ad arrivare dove doveva in meno di 30 minuti e poi godersi la mattina in un turbine di novità da riempire anima e stomaco.

Alla prima fermata aveva avuto la sensazione che forse avrebbe cambiato i suoi programmi. Alla seconda fermata aveva avuto la tentazione di urlare. Alla terza fermata era sceso dal treno con un impeto assassino, schiantando la ventina di persone che lo dividevano dall'aria aperta.

Diavolo, avrebbe camminato. Avrebbe tagliato per le passeggiate lungo i canali, avrebbe attraversato i parchi e avrebbe ispezionato vicoli e stradine adornate di muri con mattoni a vista. Non reggeva quell'ammasso di gente accalcata dappertutto. Sui treni, sugli autobus, nelle vie principali, dentro i fastfood, sotto le scale, nei tombini, dietro le insegne pubblicitarie, accanto ai lampioni, lungo il fiume, sui barconi, sopra e sotto i ponti. Pienone ovunque.

Via, via, nervoso e fastidio.
Via dalla gente, cerchiamo un po' di respiro.

Fortunatamente l'aria era fredda e pungente, e il sole non si alzava troppo oltre l'orizzonte. Ne apprezzava il calore che colpiva la giacca e gli scaldava le braccia.

Aveva abbandonato i mezzi di trasporto in una zona imprecisata del conglomerato urbano e - stando alla carta da viaggio - c'era la possibilità di tornare a casa facendo un giro lungo una decina di ore, senza il rischio incrociare nemmeno mezza bionda con tacchi ai piedi, cagnolino al seguito e borse dei regali zeppi di cianfrusaglie dai costi inverosimili sottobraccio.

Aveva staccato il cervello dagli occhi, dalle orecchie e dal naso. Lo aveva messo in collegamento diretto coi piedi. Impegnativo, ma altamente gratificante. Aveva sentito la suola delle sneakers lavorare in sintonia con l'asfalto. Erano scarpe vecchie ma affidabili: ne ebbe la conferma qualche tempo dopo, quando piedi e gambe abbandonarono l'asfalto per calpestare erba, fango e foglie morte.

Fino ad allora, il respiro si era fossilizzato dietro al petto. I polmoni andavano con ansia, come i vecchi pistoni di un treno a vapore, sfiatando ad ogni passo in sintonia con l'andazzo delle braccia e delle spalle. Non appena piedi e gambe avevano abituato il passo al fango e all'erba, anche il respiro era cambiato. Era sceso fin sotto la pancia, allargandola e spingendola con delicata ingordigia, regolando il battito del cuore, ammazzando l'ansia, facendo tornare in vita l'olfatto. Troncando ogni sbuffata e trasformandola in una strana soddisfazione.

Il ragazzo si trovava in un qualche cimitero, pieno di lapidi sverze e sbilenche, immerse in una vegetazione selvaggia e incontrollabile: rovi, rampicanti, edere ormai capaci di soverchiare anche la più alta quercia, anche il più robusto faggio, capaci di penetrare nei mattoni della cappella nel mezzo di quel labirinto di ricordi affettuosi, come a dire che Dalla terra alla terra è un viaggio senza fine.

Dal cimitero era passato in un qualche pertugio del muro, diretto ad un passatoio accanto al canale nascosto là dietro. Dal ballatoio sopra l'acqua era passato attraverso un paio di scatole di cemento - quasi di corsa - per poi ritrovarsi sperso in uno dei prati più grandi e belli che avesse mai visto. L'orizzonte lo inscatolava, certo, ma prima di battere il muso su una di quelle pareti sarebbero passate delle ore. E questo poteva bastare.

Camminando, si portò nel centro della prateria collettiva. Il vociare lontano di bambini, cani, mamme e innamorati non poteva recargli danno: erano schiamazzi simili al canto dei parrots, al rosicchiar di ghiande degli scoiattoli, al picchiettare schietto e sincero delle cince sui rami più ricchi di insettini golosi.

Lì, nel centro della prateria, il ragazzo si sedette sotto un castagno. Una pianta enorme, che portava nel legno il lavorio paziente di secoli e secoli. Torsioni, flessioni, imbarcamenti, pressioni radicali e ramificanti: una muta tenacia, uno sforzo indicibile ed invisibile che ciclicamente tornava dal mondo nel mondo, senza fermarsi mai.

Sotto il castagno il ragazzo si sentì finalmente in pace.
Chiuse gli occhi e spostò il cuore.

Lasciò che scendesse lungo la colonna vertebrale. Che all'altezza della pancia si dividesse in più parti, e che ognuna di esse si divincolasse lungo le gambe, le braccia, la testa, la bocca e le orecchie. Che la dispersione dell'animo e dell'esperienza continuasse in ogni piede, in ogni dito, in ogni pelo e in ogni capello. Che da lì passasse nei fili d'erba, nelle radici, nel terreno. Nelle gocce d'acqua disperse laggiù, nelle radici del castagno, nei rami, nelle sue foglie - le poche rimaste. Da lì il cuore e l'anima si dispersero nell'aria.

Il ragazzo era in cammino dalla mattina, qualche ora prima. Era partito da Londra, si era spostato in Abruzzo, aveva visitato i boschi in Svezia, il giardino storico di una villa a Città dei Vicoli, il suo amato Fiume Azzurro ed era tornato a casa.

Tutto d'un fiato.






venerdì 4 dicembre 2009

... felicità è anche...


...Sentirsi il cuore gonfio per...


... una telefonata, mentre stai per addormentarti, che non ti aspettavi e che cambia tutta la prospettiva di una brutta giornata, se non molto di più...

... aver fatto il primo incontro in classe del primo progetto della prima associazione della tua vita in una uggiosissima giornata di pioggia e aver ricevuto un quantitativo di calore umano tale da incidere sul riscaldamento globale...

...una sorellina che ti scrive millanta regole per curare il suo cagnolino nuovo mentre lei è via, e si affida a te pur sapendo benissimo che, anche sforzandoti al massimo, le disattenderai quasi per intero...

...Il genuino entusiasmo di una socia che crede nei tuoi stessi progetti e non gli importa che tu le dimostri quanto le sei grato per questo, tanto è entusiasta di suo...

... la malinconia delle cose sbagliate e l'ingenuità dei "La prossima volta farò così", mentre speri di esser capace di far ridere qualche principessa quando ti caricherai il prossimo asino sulle spalle, sempre che tu abbia la possibilità di incontrarne un'altra...

...le piccole cose belle che si incastrano magicamente tra le gocce di pioggia, mentre aspetti la neve di metà dicembre, col cappello in mano, la testa bagnata e il naso all'insù...








mercoledì 2 dicembre 2009

La ricetta della felicità (per 3 persone)







- 300gr di mozzarella fresca,

- 200gr di caprino appena fatto,

- 100gr di miele di castagno,

- thé alla menta (3 tazze abbondanti)

- pane (q.b.)

- 3 Soci fondatori di un'associazione un po' bislacca

- un appartamento in disordine

- scatoloni per un trasloco

- un appuntamento non previsto presso una Azienda Agricola



Fondare con altri due colleghi un'APS. I colleghi diventano Soci fondatori all'atto della firma, continuare ad amalgamare per evitare che l'associazione impazzisca.

Recarsi in gruppo all'appuntamento non previsto presso l'Azienda Agricola preferita.

Fare un sacco di moine e lusinghe fin tanto che il gestore non ceda e vi regali prodotti caseari a chili. In questo caso, si prendano solo le quantità sopra descritte, con l'educata ritrosia di chi non vuole approfittare.

Rientrare verso l'ufficio e, a metà strada, accorgersi che non c'è pane a disposizione.

Girare l'auto e fare rotta verso casa.

Arrivati in cortile, lasciar riposare al sole per circa 10 minuti i due Soci. Nel frattempo risistemare l'appartamento disordinato, buttare dalla finestra gli scatoloni per il trasloco in corso e riassettare il tavolo della cucina. I piatti del giorno prima fanno contorno, lasciateli pure dove sono.

Disporre sulla tavola piatti, posate, bicchieri. Meglio se puliti.

Mettere a bollire delle foglie di thé al bergamotto con foglie di menta e un cucchiaio di miele di castagno.

Far accomodare i Soci nell'appartamento per poi guidarli al tavolo apparecchiato.

Spalmare il caprino su piccole fette di pane e irrorarlo con miele a gocce.

Tagliare con grazia la mozzarella, aspergerla di miele.

Assaporare.

Sorseggiare il thé.

Ripetere gli ultimi passaggi a volontà.



martedì 1 dicembre 2009

Dispaccio di inzio dicembre







Fioccano le notizie e gli impegni.

La ciurma dei Nomadi sulle Spine al completo si è staccata dagli affari interni per dedicarsi alla vita sociale e reale, ultimamente.

Stakanov e la Megattera Bebop hanno dato una mano alla neonata Associazione di promozione sociale, la quale annuncia fiera e compatta un buon numero di progetti approvati. Con il giusto terrore di chi comincia a muovere i primi passi - con o senza girello - tutta l'associazione ride di gusto, sbatte le mani e guarda il mondo con gli occhi sgranati.

Coraggio o incoscienza? si chiederanno i più: i Soci Fondatori si abbracciano contenti e appena girato l'angolo alzano il bavero del cappotto, assaliti da un turbinio di emozioni tra l'incredulità e la speranza.

Gli stessi Soci Fondatori, negli ultimi due mesi, sono stati visti farsi valere in diversi modi e diversi ambiti. Durante il workshop della Regione Lombardia a Cremona. Durante gli incontri con le varie amministrazioni comunali. Durante gli incontri con altri attori di educazione ambientale (si legga "concorrenti", detti anche "possibili partner di progetto" in gergo partecipativo).

Sono stati tacciati di idealismo, di estremismo, di partecipazionismo, di dilettantismo, di naifismo, di volontarismo, di fancazzismo e - in alcuni casi contradditori - di precipitazionisimo. Ma i Soci Fondatori non si sono tirati indietro: si sono rimboccati le maniche e hanno spaccato.

Bravi ragazzi. Continuate così, fintanto che c'è qualcuno che vi dà credito. Poi si vedrà!

Nel frattempo, Il Saggio sull'Albero ha deciso di scendere e vedere di darsi da fare anche lui. Così si staglia all'orizzonte con un lavoro-pagnotta ad alto contenuto umano, dal devastante impatto psico-emotivo come può esserlo solo il diventare educatore in una comunità di minorenni tolte alle famiglie per i motivi più svariati. Una di quelle cose che più lo fai, meno il tuo fisico lo regge e più lo faresti.

A latere di tutto questo, qualcuno della ciurma dei Nomadi - Il Marinaio, n.d.r. - sta scandagliando il sottobosco, in cerca di ghiande particolarmente dolci e di pulci particolarmente pruriginose. La ricerca sembra essere solo agli inizi e si presenta come una di quelle ricerche che non hanno nessunissima intenzione di essere chiuse in tutta fretta. Anzi.

La ricerca tra le foglie è un'azione strana - fa sapere il Marinaio - Non sai quello che cerchi, non hai la minima idea di quello che trovi, e non sai perchè ma quando alzi lo sguardo sai quasi sempre sotto quale albero ti trovi. E riesci anche a dirlo in giro.

Sorprese a parte, sostenibilità vuol dire anche coltivare i propri sogni e avere il tempo di goderseli. Quindi grandi e lunghe pause, nessuna fretta, tanta buona musica, ottime birre, buone letture, punti di ritrovo improbabili, legnetti intagliati, dita tagliate quasi di netto, collage impossibili, e un po' di sana nostalgia per i momenti sacri in cui si pretende di stare soli.


mercoledì 18 novembre 2009

Guarda in su, guarda in giù...







E' un po' come spostare le foglie
per vedere cosa c'è sotto.
Uno scava, seguendo gli odori buoni,
e crede di andar giù per linea dritta,
poi alza lo sguardo e si accorge
d'essersi spostato in tondo, in giro, in lungo:
come i cinghiali.

Che, sazi e satolli delle ghiande trovate,
poi s'allontanano trottando
col muso all'insù
tra una quercia e un noce
ad annusar l'aria e la pioggia.


lunedì 16 novembre 2009

Strane assonanze






Anche in giro per il mondo ho qualche fratellino e sorellina.
Madri diverse, si capisce...
E i padri di stoffe diverse, s'intende...




Insomma, quel genere di fratelli e sorelle
che li incontri tra un porto di mare e l'altro,
e ti rimangono attaccati come fossero parte della tua ombra,
o della tua anima.
Che poi, a volte, è lo stesso.







sabato 14 novembre 2009

Un venerdì con le cuffiette







Il ragazzo era alto, barbuto e spettinato, con i vestiti un po’ usati, quasi venisse lì per lì da una corsa a perdifiato dietro a chissà quale bel sogno. Parcheggiò la sua auto appena fuori dal numero civico che gli avevano notificato.

- Era la sede di un vecchio supermarket – avevano precisato – non ti puoi sbagliare!.

Di fatti, il vecchio stemma del proprietario blasonava ancora le lunghe e fredde vetrate. Per la metà superiore, le vetrate erano coperte da saracinesche grigie e polverose, per la metà inferiore da uno strato di vernice bianco panna, dal quale permeava la luce giallastra dell’interno.

Il ragazzo suonò il campanello. Una voce squillante non si fece attendere, seguita a ruota dallo scatto elettrico della serratura. Appena tre secondi dopo, una figura altissima ed enorme zampettò dietro le vetrate d’ingresso. Era la Donna Cannone, vestita con una tenda di velluto nero, adornata con più accessori che curve in eccesso e sormontata da un indecifrabile cappellino in lana viola, portato sulle ventitré.

Il ragazzo allungò la mano, presentandosi, e fece scrocchiare qualcosa nascosto nelle dita di quell’insolita figura. Un sorrisino abbozzato da quel viso suino e la stretta molliccia sparì in un lampo, trasformandosi in un ampio gesto di cortesia. Misegualaprego.

Il ragazzo si servì un caffè, si accomodò in una scrivania d’angolo e si mise a leggere. Mentre leggeva, cercava di intuire qualcosa dal gran vociare che arrivava dall’enorme salone alle sue spalle. Buttando un’occhiata di tanto in tanto. Il vecchio supermarket era stato trasformato in un call-centre. Era stato sventrato da scaffali e casse e uffici, per essere rimpinzato con qualche computer e qualche cuffietta, sistemati in una squallida isola di cartone al centro dell’enorme scantinato.

La Donna Cannone era in piedi, in mezzo al salone, tra le scrivanie: si muoveva tra le postazioni telefoniche toccando gli operatori sulla spalla, uno ad uno. Tivedo Tisento Ticontrollo. Alle sue spalle, d’improvviso, spuntò la Donna Gatto, che sinuosa e flessuosa si avvicinò al ragazzo.

- Buongiorno sono Elettra, la Responsabile dell’Azienda, sono contenta che abbia accettato di sostenere il colloquio, siamo un’Azienda Leader nel settore da undici anni e ci occupiamo di vendite telefoniche per un fornitore di servizi informativi nazionale, dopo due mezze giornate di formazione, per il primo mese lavorerà a contratto con la società interinale, alla fine di questo mese, se la valuteremo idoneo, sarà messo sotto contratto a progetto direttamente da Noi, il che prevede 15 euro netti di rimborso spese al giorno e una provvigione del 4% per almeno 14 contratti stipulati nel mese-lavoro. Al termine del progetto, della durata di 3 mesi, sempre che sia nuovamente ritenuto idoneo, le faremo un nuovo contratto a progetto, con due mezze giornate di formazione per il nuovo servizio da vendere: rimborsi e provvigioni rimarranno sempre gli stessi.

- Buongiorno a lei, signora Elettra. – rispose il ragazzo.

- Bene, vedo che lei lavora al mattino, cos’è un’associazione di volontariato la sua? Mmm… e vedo che abita parecchio lontano da qui, spero davvero che questo non sia un problema. Abbiamo già avuto casi di persone che venivano da città lontane e allo scadere del contratto con l’agenzia interinale hanno preferito rinunciare al nostro contratto perché non sopportavano più di dover fare tutta quella strada, confidiamo che lei prenda da subito in considerazione la cosa e che ci pensi bene, prima di farci rifare tutto il lavoro di formazione da capo.

- Non è mai stato un problema fare un po’ di strada per andare al lavoro… –

- Bene, un’altra cosa che voglio sia chiara è che durante i due giorni di formazione che faremo (lei comincerà lunedì) è come trattare con i clienti, certo, ma soprattutto come trattare i clienti. Proprio oggi, ad esempio, un interinale di 48 anni che era con noi da appena due settimane si è preso la libertà di insultare un cliente e poi ha avuto anche la bella faccia di fare lui quello ch’era stato offeso, ha fatto fagotto e se ne è uscito sbattendo la porta!… Non sia mai, intesi? Un atteggiamento del genere rovina il clima positivo delle vendite e mette in cattiva luce tutta l’azienda, gettando nel ridicolo tutta la squadra. Un cliente trattato così è un cliente bruciato. Meno male che quel “signore” se n’è andato prima che riuscissi a prenderlo io, che ero al telefono col cliente da recuperare: lo avrei sbattuto fuori con le mie stesse mani! Che razza di ebete! –

- Ah… come hanno reagito i colleghi? –

- … in che senso scusi? –

- Che cosa hanno detto o fatto i colleghi, quando è successa questa cosa? –

- Che domande… gli si sono messi a ridere in faccia! Cosa puoi fare con uno così? Una come me passa anni a costruire un bel gruppo di venditori, con un bel senso di sana competitività, una sana voglia di fare meglio degli altri, sempre a spingersi per migliorarsi a vicenda… e poi arriva un tizio che fa una scenata del genere! Non le dico come hanno reagito! Se le facessi vedere il grafico giornaliero di ieri e il grafico giornaliero di oggi capirebbe che dramma è stato! –

- …

- Ascolti… allora noi ci vediamo lunedì alle 14.00. Puntuale, la prego, che cominciamo la formazione con gli altri nuovi come lei. Martedì prova pratica, da mercoledì si comincia con le vendite reali.

- Uh, certo, come no.

Il ragazzo si alzò, si infilò sciarpa e cappello. Raccolse lo zaino, strinse qualche mano. Con un sorriso ebete stampato in faccia. La sensazione di stordimento era completa, abissale. Uscì in strada, e l’aria fredda e buia della sera lo accolse come un abbraccio tenero e consolatorio. Di stelle non se ne vedevano, dietro ai lampioni, ma lui sapeva ch’erano là.

Il ragazzo salì in macchina. Un mese pagato dall’interinale e poi piantare un casino tale da farsi licenziare. Urlare in faccia a quella Gatta Morta che il lavoro è sacro, che il lavoratore è sacro. Che quello che offriva lei non era lavoro, ma uno schifo di schiavitù, e che quelli lì alle scrivanie non erano lavoratori, ma schiavi inebetiti da scrollare, da svegliare. Urlare a tutti di prendete coscienza, che il signore di 48 anni sì che sapeva cos’era la dignità!

Aveva bisogno di lavorare, il ragazzo, ma a tutto c’era un limite. Certo, non lo aveva mai fatto prima, di farsi licenziare.

Un sorriso gli si abbozzò sincero, illuminandogli gli occhi. Aveva tutto un fine settimana per decidere.


giovedì 5 novembre 2009

Traslochi malriusciti








C'è che alle volte va proprio così.

Vedi un armadio che ti piace e che sai ci starebbe troppo bene in salone, 'fanculo quell'Ikea di merda. Sarà grosso ma ce la puoi fare lo stesso. Costi quel che costi.

E allora, quelle volte lì, ti ritrovi a portare un armadio dell'Ottocento gigante al piano più alto del palazzo in cui traslochi e non entra nell'ascensore. Così chiedi all'amico di fiducia di darti una mano, che i soldi per il traslocatore mica li hai... E lui arriva tutto contento per poter essere d'aiuto, e si rimbocca le maniche con lo sguardo di chi ha seriamente intenzione di farsi valere.

Tu te ne stai lì, immobile, che ti interroghi sul da farsi, ne vedi gli angoli morti, ne scruti le crepe, ne valuti il peso enorme, eppure ti carichi quel coso sulle spalle e fai di tutto per riuscire a portarlo ai piani alti.

Il compare ti aiuta tenendo l'armadio da sotto, mentre ti crista dietro santi e madonne che il peso dell'affare ce l'ha addosso tutto lui, Perdio tienilo che mi schiaccia! Mentre a te ti si stirano le dita, ti saltano i tendini delle spalle, ti si inciampano i piedi e ti si arrotano le ginocchia dal dolore.

E in due vi fate i mille gradini che separano l'antro d'ingresso dal primo pianerottolo, e dovete mettere giù l'armadio in tempo zero... Cazzononcipassa, Masìspingi!, Nogiralo, TiradaiperlamadonnaTira!, Nochesiriga!, Madaiiii!... E alla fine riuscite a passare il pianerottolo, solo per affrontarne chissà quanti altri.

C'è che alle volte va proprio così. Che alla fine quel peso immane, lo si porta fino in cima, sgrabelato come il ginocchio d'un ciclista di quart'ordine, con i fumi che escono dalle orecchie, ma in cima ci si arriva. E allora si brinda, si festeggia e ci si gode l'armadio ottocentesco mentre ci si scioglie in brodo di giuggiole.

Ci sono delle volte, invece, che arrivati al secondo, terzo, quarto pianerottolo, avete tra le mani un armadio che a furia di cozzare contro i muri è diventato largo la metà di quanto era. Le antine cascano, lo specchio s'è rotto, le maniglie d'ottone penzolano e cigolano. Mentre le forze abbandonano te e il tuo compare con la stessa velocità con la quale avete appreso nuovi e stravaganti insulti con i quali appellarvi.

Quelle volte lì, l'unico momento di condivisione sincera - a parte gli insulti - siete voi due che vi guardate negli occhi e, senza dire niente, aprite la finestra che da sul cortile, guardate che di sotto non passi nessuno e, in un impeto liberatorio, scaraventate quel maledetto peso più in là che potete. Mentre urlate in faccia al mondo la fatica di quelle scale.

Poi vi allungate la mano, ve la stringete con una certa mestizia, mista ad una quasi immutata stima, e vi salutate.

Tu sali in casa a farti una doccia, e l'amico va a fare shopping.

Sicuro, in quei momenti lì, nei tuoi occhi aleggia un solo, fugace pensiero. Però, quell'Ikea..?



lunedì 5 ottobre 2009

Aspettando la qualsivoglia meraviglia














Era da tempo che non riusciva a scrivere qualcosa. La sua scrivania era un disastro. Pezzi di carta d'ogni genere e specie ammuffivano assieme a pezzi di liquirizia in trucioli. Mozziconi di tabacco da pipa spenti in bicchieri opachi odoravano la stanza senza alcuna pietà. Il letto si confondeva con il pavimento, grazie ad un accumulo insulso di lenzuola e biancheria.

Lui era bloccato al centro della stanza, distante dalla macchina da scrivere almeno quattro passi, nudo come un pesce, con due orrendi calzini di cotone spugnoso a coprire quel poco di decenza che da tempo calpestava sotto i talloni. Sapeva che il sole era salito alto nel cielo, attraversando le persiane della finestra, e poi era sceso sempre più in fretta, trasformandosi di nuovo in buio e freddo e miseria. Chissà quante volte.

Il racconto non voleva procedere. Non ne voleva sapere di avanzare. Il sole era venuto e andato non sapeva più quante volte. Ormai le gambe non lo sorreggevano più e le braccia erano completamente addormentate. Il freddo che aveva avvertito ai testicoli era ormai scomparso, lasciando il posto ad un frequente formicolio che saliva dai talloni e non lo avrebbe abbandonato a breve.

Il marinaio se ne stava così, con le finestre aperte e le persiane chiuse, con lo sguardo fisso sulla pagina nella quale da tempo cercava di scrivere che cosa gli fosse capitato. Ne aveva tutto il diritto. Ne aveva bisogno, quanto di mangiare e bere - cosa che per altro non gli riusciva e non gli sarebbe riuscita fintanto che quelle maledette parole non fossero state messe su carta.

Il racconto era la sua vita, sua e dei suoi compagni nomadi. Se non procedeva quello, le loro vite sarebbero rimaste sospese. Se lui fosse morto cercando di raccontarsi, sarebbero morti anche loro. Aveva un mondo da scrivere. Un mondo da inventare. Un mondo da vivere.

La macchina da scrivere sembrava ridesse. Impossibile, assurdo. Ma gli rideva in faccia. Non ha senso quello che vuoi dire. Non ha senso per te, non ha senso per loro. Non ha senso per nessuno. Sembrava dirgli. Come in un vecchio film nel quale le macchine da scrivere erano in realtà agenti segreti di un mondo deforme e imbambolato dalle droghe.

Ma lui non era drogato. Era sveglio e vigile, per quanto gli concedessero le sue gambe e il suo stomaco vuoto e disidratato. Avvertiva il ronzio delle mosche nella stanza immobile. Sentiva gli odori delle cose nel frigo, immobili quanto lui. Percepiva le correnti d'aria che portavano di tanto in tanto gli odori da fuori: la pioggia, l'asfalto caldo bagnato di fresco, l'erba del vicino tagliata, l'azzurro del cielo.

Lui era sveglio e vigile, e quelle parole le avvertiva perfettamente. Si erano gelate da qualche parte in fondo allo stomaco. Il marinaio sapeva esattamente quale fosse la loro forma e che colore avessero. Ma non ne comprendeva il suono. Erano parole mute, gelate come blocchetti di ghiaccio sperduti in fondo ad un freezer da scongelare. E, perdio, non sarebbero venute fuori nemmeno a morire. Erano parole spaventose, che nessuno - proprio nessuno - riusciva ad immaginare. Né parole d'amore, né parole di terrore. Semplicemente parole spaventose.

Gli altri nomadi sulle spine erano preoccupati per il Marinaio e si affacciavano, di quando in quando alla porta della stanza: facevano per avvicinarsi alla macchina da scrivere, da soli o tutti assieme, per distrarlo e cercare di suggerire al foglio almeno un incipit giusto. Ma gli occhi del marinaio li trafiggevano come l'arpione di Queequeg, precisi fino alla morte, ardenti d'una luce assassina e violenta. Non azzardatevi, la preda è mia. Sembrava dire senza proferire nemmeno un sibilo.

Così tutt'attorno alla stanza, la vita continuava. Stakanov non aveva un attimo di tregua e creava situazioni strampalate nelle quali indaffararsi e industriarsi. L'eremita australiano se ne stava a gridare al mondo la sua vanità. Dal canto suo, la Balena Bebop navigava tra oceani pieni di ingiustizie cercando di mettere un po' del suo impegno nelle vite altrui. Ma tutti quanti avevano una paura fottuta e pregavano perché il Marinaio capisse esattamente che cosa stesse succedendo al loro mondo.

E finalmente lo rendesse reale, raccontandolo.







venerdì 25 settembre 2009

La Paura...








06 settembre 2009.

Domenica.
1h16.
Scritto e mai pubblicato.




Ho così bisogno di scrivere. E non riesco più a farlo. Sul blog non posso raccontare cosa mi succede perché c'è chi potrebbe non capire, o capire troppo. E' come se, in questo momento di folle corsa verso il futuro, io abbia tagliato la maggior parte delle vie di comunicazione col mondo, come se il far sapere agli altri dove voglio arrivare sia di per sé un pericolo, uno sbaglio. Un modo per rendere assolute scelte e bivi che, altrimenti, potrei invertire e convertire fino all'ultimo momento, e oltre.

Voglio mantenermi indipendente, negli spazi e nelle azioni, voglio vivere ancora in questo bozzolo, in questo appartamento isolato dal mondo per qualche tempo, voglio avere ancora la possibilità di imparare più e più cose sul mio lavoro, sulla mia vita.

Ed ora tutto è sconvolto, tutto si agita e mi vortica attorno. Ed io mi gelo, mi comprimo, diminuisco la superficie esposta e aspetto che gli eventi mi diano uno spiraglio, una via di fuga da poter plasmare e far rimbalzare su altri eventi, per andare nella direzione più aderente ai miei intenti ultimi.

La Donna Ottocentesca è l'unica che mi smarscheri, l'unica che mi faccia alterare e che ogni volta voglia scoperchiare questa mia ostinata incomunicabilità, col risultato di vedermi esplodere e vedersi scaricare addosso le mille e più paure che dovrebbero stare compresse, aspettando la via risolutiva con tempi autunnali.

La perdita del lavoro, la nascita d'una mia associazione, la dismissione del contratto d'affitto, il lavoro, l'educazione ambientale, la società, la vita stessa. A volte mi chiedo davvero che senso abbia tutto questo.


Per chi sto inseguendo questa mia balena bianca?Per chi ho deciso di stracciarmi l'anima?Per chi ho deciso che questi sono i miei sogni?Da dove arriva questa folle determinazione?Sono forse schiavo di un vuoto cosmico, che non mi vale da solo il senso di vivere?
Per cosa? Perdio! Per chi?

Per chi?

La solitudine, a volte, mi è parsa una soluzione. Via dai vincoli urbani, senza compromessi lavorativi, lontano da una società sudicia e suicida, corrotta nell'anima e nello spirito, incapace di bloccare la cupidigia che l'ha spinta a divorarsi le membra e i figli.


Ma quale soluzione può essere, questa solitudine, quando anche nell'abisso, il cuore non smette mai di sperare?










giovedì 6 agosto 2009

Tempeste






Perdonate l'immobilità che m'ha colto,
Ma come spiegare la paura e la meraviglia delle ultime settimane?
A volte anche un buon vecchio marinaio di foresta
resta senza parole adatte.
Quel che è sicuro è che, prima o poi, le trova.






mercoledì 8 luglio 2009

Respiro








Le mani,
le mani, mai ferme.
Colorano il mondo
di nuova esperienza.

Al passo coi piedi,
con la testa leggera,

col cuore a zonzo,
in cerca di Casa.

Con le fronde al cielo
e le radici nell'acqua:

nel mezzo,
le braccia aperte,
spalancate agli eventi,
e la bocca alle stelle.





venerdì 3 luglio 2009

SegnalAzioni









il babau è un mostro bianco
per chi di vivere è ormai stanco
il babau è un mostro nero
finisci dritto al cimitero
il babau è tutto rosso
corri corri a più non posso
il babau è tutto giallo
tocca pure al maresciallo
il babau è anche blu
occhio il prossimo sei tu
il babau è di tutti i colori
se lo incontri sicuro muori


mercoledì 1 luglio 2009

Rotolando sotto il sole









Un sassolino,
dalla cima della montagna,
decise di farsi una ruzzolata.
Scendi qui,
Scendi là,
diventò una valanga.
E la foresta gli gridò.
chi Evviva!
chi Dove vai!
chi Ma fermati!
E il sassolino continuò.
Fin giù al fiume.
Pluf...











giovedì 18 giugno 2009

Novelle





...E mentre a Boscolandia spuntano nuovi inquilini,
quasi morti di Fame e Freddo e Spavento,







...Altrove spuntano luoghi dove rintanarsi
a fare l'amore
quando il caldo sfianca...









... o dove progettare il primo esproprio proletario
della prossima resistenza...









giovedì 11 giugno 2009

Entusiasmi miracolosi










E ieri che ho portato tra i monti una masnada di undicenni con Suor Biba come riferimento?

Tra un CammineròCammineròSulllaTuaStradaSignore e un IoLoSoSignoreCheVengoDaLontano, ho fatto il pieno di fede cristiana: come non ne facevo da quando portavo la croce ai funerali e suonavo la campanella durante le messe solenni.

Insomma, un Avemaria prima di partire, un Padrenostro prima di pranzo, un Ohgesùdamoreacceso prima della discesa per il rientro.

Sta di fatto che arriviamo al pullman, che è rimasto sotto il sole tutto il giorno.

La suora sale con la prima infornata di marmocchi, e io subito dietro, seguito da Vincenzo l'autista. Nel bus si muore di caldo.

- Oh, che caldo - fa Suor Biba, tutta accorata - Presto, chiediamo al signore di accendere l'aria condizionata!

- Sorella, non le pare di esagerare? - dico con sorriso beffardo.




martedì 9 giugno 2009

i pensieri del giorno








Una carrozza nuova, che la vecchia sta perdendo i raggi delle ruote, si dovrebbe poterla trovare senza tutti 'sti casini.

Un brutto voto a scuola, decisamente non meritato, può effettivamente minare l'entusiasmo. Meno male che è di cemento armato.

Una stupida discussione notturna con la Signorina Airone, senza potersi ammorbidire di persona, non passa inosservata in Svizzera nemmeno quando è per telefono. Meglio rimediare prima possibile.

Due giorni di riunioni all'Acquario senza quasi soluzione di continuità rendono Timothy idrofobo.

Un tempo sulla testa che Parrebbe voler piovere, Ma dai no, anzi magari diluvia, No dai che esce il sole, Ma no tuona, non senti? Bah... c'è il sole rende Timothy più curioso che mai.

I progetti di vita a lisca di pesce, che non s'incastrano nemmeno a bestemmiare, ma che quando s'impuntano, cazzo se riesci a venirne fuori, rendono Timothy sarcasticamente eccitato.

La Svizzera che se non fosse oltre confine sarebbe meglio (forse), sarebbe meglio andarci noi, anche piuttosto in fretta.

Un branco di freakkettoni - che tra un po' devo diventarci amicone e non ci son cazzi che mi vada a genio 'sta cosa, anzi: più ci penso peggio è - è meglio che mi insegnino a travestirmi da freak se no butto qualcuno a mollo.

Stasera si esce a cena con l'Angelo Con gli Stivali. Ma che fine han fatto la Duchessa e la Fata Anarchica?

Le guance restan sempre le guance e un pancino morbido vale mille telefonate consolatorie.




venerdì 5 giugno 2009

La storia dei due ricci
















La giornata era una di quelle piene di sole, alla fine dell'estate. L'aria era chiara e trasparente e persino le zanzare avevano capito che mettersi a volare con un cielo del genere sarebbe stato un delitto sociale. Così la brezza svolazzava leggera tra le fronde degi alberi e l'enorme disco dorato splendeva incastonato in un indaco compatto e senza striature.

Due ricci se ne andavano, ognuno per la sua strada, lungo i sentieri del Grande Prato: sotto le siepi, in mezzo agli aghi dei Cedri, sgambettando per il verde smeraldo dell'erba appena rasata e il giallo paglierino del fieno lasciato sul campo. Tutti e due avevano il naso all'insù: un piccolo bottoncino nero umido, fissato sul musetto morbido, appena sotto un paio di occhi tanto meravigliati dalla bellezza della giornata da starsene spalancati come un poderoso sbadiglio.

Il primo riccio, che poi era una Riccia, se ne scendeva dalla collina. Aveva gustato la frescura dei boschi e se ne tornava tranquillamente verso il fondovalle, dove scorreva il fiume. Aveva sentito parlare di una pozza dove potersi fare il bagno senza doversi preoccupare dei corvi o di attraversare la strada. Si vedeva che aveva letto Gramsci. Portava sulla schiena un'enorme mela rossa, tutta lucida e luccicante: l'aveva raccolta sotto il grande melo a mezzacosta, rotolandosi su un lato, finché non era riuscita a infilzarla ben bene nei suoi aculei. Ora se ne camminava via, un po' barcollando sotto quel peso gigante, un po' chiedendosi come avrebbe fatto a mangiarsela, questa mela, ora che ce l'aveva sulla schiena.

Il secondo riccio, che era poi un Riccio, stava risalendo il prato verso la collina. Era stato al fiume a darsi una rinfrescata e aveva sentito dire che su per i monti, proprio lungo le siepi del campo, si poteva incontrare un grande melo, le cui mele erano senz'altro tra le più succose e dolci della valle. Era un riccio strambo, lo conoscevano un po' tutti, da quelle parti: sempre dietro a parlare di cose difficili - che chiamava concetti - boffonchiava d'aver letto Shopenauer e passava gli inverni ad inseguire le altre ricce cercando di avvicinarle il più possibile, Per scaldarci a vicenda! diceva convincente - sbagliando poi clamorosamente le distanze e finendo inevitabilmente per farsi pungere e scappar via.

Nel loro camminare col musetto all'insù, i due ricci si giravano di qua e di là: ora guardavano che nessuno fosse nascosto dietro un cespuglio per portarseli a casa in un sacco, ora seguivano con lo sguardo lo svolgersi delle radici di farnie e faggi, ora ascoltavano rapiti il vento che frusciava tra le fronde delle siepi, ora porgevano le orecchie ai richiami di usignoli e fringuelli. Mai che guardassero dove stavano andando o dove mettessero le zampette.

Un bel momento, appena prima di imbucare la via del bosco, il Riccio di Shopenauer sentì un gran roboare di cose rotolanti. Qualcosa a metà tra il rosso lucente e il marrone pungente gli fu addosso, sbucando d'un salto dalla siepe e trascinandoselo via lungo il pendio della collina: fino in fondo al prato, proprio in mezzo al sole.

Proprio un attimo prima, mentre ammirava estasiata il volo d'una piuma, la Riccia di Gramsci aveva cominciato a rotolarsene giù per la collina picchiando la mela, il muso e la schiena tra i sassi e le radici. Cozzò a tutta velocità su un'ultima radice, rimbalzandosene in aria per poi travolgere qualcosa di incredibilmente morbido e stranamente pungente, trascinandoselo via lungo il pendio della collina: fino in fondo al prato, proprio in mezzo al sole.

A quel punto, Riccio e Riccia cercarono di rimettersi in piedi, un po' intontiti. Il sole gli riempiva gli occhi, e il paesaggio intorno stentava a farsi sempre più nitido.

Riccio si accorse che qualcosa non quadrava. La sua schiena era appesantita e i suoi aculei erano come impigliati: non che riuscisse a girarsi per guardare, ma gli sembrava come se qualcosa di rosso e lucido, un po' tondo e un po' no, gli si fosse infilzato addosso. Anche Riccia s'era accorta che qualcosa era cambiato: il capitombolo aveva spezzato la mela, metà della quale s'era incuneata sulla schiena di quel buffo riccio steso lì davanti, a grattarsi la testa sconcertato.

Messo a fuoco il mondo, le pupille nere e profonde dei due si incrociarono.

- Hai metà della mia mela sulla tua schiena, Shopenauer... - La voce sorridente di Riccia si fece sentire

- Uh, come? Ah, la mela... E' una metà mela questa? Proprio qui, sul mio dorso? Dì un po', Gramsci, sarà mica una di quelle rosse e succose del melo a mezzacosta? - La voce titubante di Riccio era un unico punto interrogativo.

- Eh, sì... l'ho raccolta da poco... Se vuoi puoi assaggiare un po' della mia metà...

- Uh, davvero? ...Beh, potrei pensarci, grazie... Direi che sembra proprio una delizia!

E se ne zampettarono via insieme, felici e contenti di mordicchiarsi di tanto in tanto, alla giusta distanza di mezza mela.





Che domanda!








Sapete dirmi chi popola questa stupenda immagine
di Roberto Innocenti?



Io e la Donna Ottocentesca abbiamo individuato Ahab, Ismaele, Moby Dick, il commissario Maigrait e l'aviatore del Piccolo Principe.



Chi altri riconoscete?