"Le storie servono alla poesia, alla musica, all'utopia, all'impegno politico: insomma all'uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché in apparenza non servono a niente: come le poesie e la musica, come il teatro e lo sport... Servono all'uomo completo e, vorrei aggiungere, a completare un uomo."
Gianni Rodari


lunedì 5 ottobre 2009

Aspettando la qualsivoglia meraviglia














Era da tempo che non riusciva a scrivere qualcosa. La sua scrivania era un disastro. Pezzi di carta d'ogni genere e specie ammuffivano assieme a pezzi di liquirizia in trucioli. Mozziconi di tabacco da pipa spenti in bicchieri opachi odoravano la stanza senza alcuna pietà. Il letto si confondeva con il pavimento, grazie ad un accumulo insulso di lenzuola e biancheria.

Lui era bloccato al centro della stanza, distante dalla macchina da scrivere almeno quattro passi, nudo come un pesce, con due orrendi calzini di cotone spugnoso a coprire quel poco di decenza che da tempo calpestava sotto i talloni. Sapeva che il sole era salito alto nel cielo, attraversando le persiane della finestra, e poi era sceso sempre più in fretta, trasformandosi di nuovo in buio e freddo e miseria. Chissà quante volte.

Il racconto non voleva procedere. Non ne voleva sapere di avanzare. Il sole era venuto e andato non sapeva più quante volte. Ormai le gambe non lo sorreggevano più e le braccia erano completamente addormentate. Il freddo che aveva avvertito ai testicoli era ormai scomparso, lasciando il posto ad un frequente formicolio che saliva dai talloni e non lo avrebbe abbandonato a breve.

Il marinaio se ne stava così, con le finestre aperte e le persiane chiuse, con lo sguardo fisso sulla pagina nella quale da tempo cercava di scrivere che cosa gli fosse capitato. Ne aveva tutto il diritto. Ne aveva bisogno, quanto di mangiare e bere - cosa che per altro non gli riusciva e non gli sarebbe riuscita fintanto che quelle maledette parole non fossero state messe su carta.

Il racconto era la sua vita, sua e dei suoi compagni nomadi. Se non procedeva quello, le loro vite sarebbero rimaste sospese. Se lui fosse morto cercando di raccontarsi, sarebbero morti anche loro. Aveva un mondo da scrivere. Un mondo da inventare. Un mondo da vivere.

La macchina da scrivere sembrava ridesse. Impossibile, assurdo. Ma gli rideva in faccia. Non ha senso quello che vuoi dire. Non ha senso per te, non ha senso per loro. Non ha senso per nessuno. Sembrava dirgli. Come in un vecchio film nel quale le macchine da scrivere erano in realtà agenti segreti di un mondo deforme e imbambolato dalle droghe.

Ma lui non era drogato. Era sveglio e vigile, per quanto gli concedessero le sue gambe e il suo stomaco vuoto e disidratato. Avvertiva il ronzio delle mosche nella stanza immobile. Sentiva gli odori delle cose nel frigo, immobili quanto lui. Percepiva le correnti d'aria che portavano di tanto in tanto gli odori da fuori: la pioggia, l'asfalto caldo bagnato di fresco, l'erba del vicino tagliata, l'azzurro del cielo.

Lui era sveglio e vigile, e quelle parole le avvertiva perfettamente. Si erano gelate da qualche parte in fondo allo stomaco. Il marinaio sapeva esattamente quale fosse la loro forma e che colore avessero. Ma non ne comprendeva il suono. Erano parole mute, gelate come blocchetti di ghiaccio sperduti in fondo ad un freezer da scongelare. E, perdio, non sarebbero venute fuori nemmeno a morire. Erano parole spaventose, che nessuno - proprio nessuno - riusciva ad immaginare. Né parole d'amore, né parole di terrore. Semplicemente parole spaventose.

Gli altri nomadi sulle spine erano preoccupati per il Marinaio e si affacciavano, di quando in quando alla porta della stanza: facevano per avvicinarsi alla macchina da scrivere, da soli o tutti assieme, per distrarlo e cercare di suggerire al foglio almeno un incipit giusto. Ma gli occhi del marinaio li trafiggevano come l'arpione di Queequeg, precisi fino alla morte, ardenti d'una luce assassina e violenta. Non azzardatevi, la preda è mia. Sembrava dire senza proferire nemmeno un sibilo.

Così tutt'attorno alla stanza, la vita continuava. Stakanov non aveva un attimo di tregua e creava situazioni strampalate nelle quali indaffararsi e industriarsi. L'eremita australiano se ne stava a gridare al mondo la sua vanità. Dal canto suo, la Balena Bebop navigava tra oceani pieni di ingiustizie cercando di mettere un po' del suo impegno nelle vite altrui. Ma tutti quanti avevano una paura fottuta e pregavano perché il Marinaio capisse esattamente che cosa stesse succedendo al loro mondo.

E finalmente lo rendesse reale, raccontandolo.