"Le storie servono alla poesia, alla musica, all'utopia, all'impegno politico: insomma all'uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché in apparenza non servono a niente: come le poesie e la musica, come il teatro e lo sport... Servono all'uomo completo e, vorrei aggiungere, a completare un uomo."
Gianni Rodari


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lunedì 17 maggio 2010

Emersioni





La sensazione è quella di riemergere dopo una grande apnea, alla fine di un'avventura poderosa.

Penetrati nell'antro oscuro, abbiamo combattuto draghi assassini e farfalle carnivore, ci siamo fatti in quattro per recuperare le pietre magiche e poi, proprio mentre tutto crollava e bruciava di esaltazione, ci siamo tuffati nella baia rumoreggiante e scura - in fondo alla quale una strana luce azzurrognola faceva sperare nella classica via di fuga.

E poi ci siamo ritrovati a galleggiare in pieno oceano, girandoci a guardare il vulcano che si era appena risvegliato - ultimo guardiano di quelle pietre che avevamo sottratto.

E galleggianti, alla deriva, ridevamo e sbattevamo le mani sull'acqua... Per vedere il piccolo clipper amico all'orizzonte. Così abbiamo iniziato a nuotare in quella direzione, con il peso leggero del bottino nella sacca a tracolla.

Uscire da questa primavera è stato un po' così.

Siamo solo all'inizio, gente.


domenica 4 aprile 2010

Il nido pensile





L’uomo camminava sulle radici e sui tronchi con una destrezza invidiabile. Ormai non faceva più nemmeno caso al baratro che si apriva appena sotto. Era da tempo che non metteva il piede in fallo, che non rischiava di cadere, ed era da ancora più tempo che non gettava l’occhio laggiù, nel nero fondo del nulla che aveva sotto i piedi.

Un giorno di molto tempo prima la terra aveva tremato, proprio là dove l’uomo stava costruendo la sua casa. La terra aveva tremato e uno scisma colossale si era portato via il terreno da sotto i suoi piedi. Ad essere precisi s’era ingoiato tutta la casa e gran parte della foresta che c’era lì attorno. L’uomo allora era caduto. A corpo morto era caduto: giù, lungo il crepaccio incommensurabile. E mentre cadeva aveva gettato le mani alla rinfusa, afferrando qua e là delle radici che ancora sporgevano dalla parete del burrone. Le prime si spezzarono, restandogli tra le mani segnate. Altre nemmeno si accorsero della sua presa. Altre ancora invece lo aiutarono a rallentare la caduta, fino ad arrestarla. Il fondo della terra spaccata era così nero da non riuscire a vedersi, e l’uomo aveva tremato con ogni muscolo, con ogni cuore, con ogni goccia di sudore che ancora gli restava. Di scatto aveva strappato lo sguardo da quel terrore, volgendolo verso l’alto, costringendosi a non vedere quello che lo aspettava dietro le spalle e sotto i piedi, se solo avesse perso la presa. Coi denti, le unghie, gli alluci, le ginocchia e i gomiti, alla fine, cominciò una lunghissima risalita.

In verità era caduto così a fondo che il tempo impiegato per conquistare qualche tratto verso il bordo del precipizio fu lo stesso impiegato dalle radici e dalle piccole piante a strapiombo per crescere e diventare arbusti, e poi alberi. Così radice dopo radice e ramo dopo ramo, l’uomo aveva avanzato verso il bordo, sempre più vicino. Successe però che, piano piano, l’uomo smise di arrampicarsi e cominciò a spezzare e tagliare rami e tronchi e liane per sistemarli come meglio poteva: all’inizio per facilitare l’ascesa, poi per cercare acqua e ristoro, più in là per fermarsi a riposare. Ecco allora che le radici e le liane e gli alberi che avevano frenato la sua caduta divennero col tempo il suo nido pensile.

Ora l’uomo camminava sulle radici e sui tronchi con una destrezza invidiabile. Tempi e giorni e stagioni gli erano occorse per acquisire quell’abilità: di ogni pezzetto di legno sapeva soppesare la portata con uno sguardo e laddove percepiva una mancanza - o laddove ci fosse anche solo il minimo sospetto di riuscire a intravedere il nero vuoto sottostante - l’uomo correva istintivamente ai ripari ponendo nuovi rami, nuove travi, nuove liane. Il rifugio era diventato tanto immenso e articolato da toccare l'altro lato del burrone, mentre l’uomo passava le sue giornate a saltare da un ramo all’altro per sistemare, qui e là, questo o quel pezzo. Fu proprio durante una di queste operazioni che successe. Arrivando per rinforzare un pavimento ancora troppo sottile, l’uomo poggiò rami e frasche su uno dei rami portanti: con uno schianto il ramo si spezzò. Con un soffio sordo e frusciante, gran parte della pavimentazione del rifugio fuggì verso il baratro.

E l’uomo si ricordò della terra che aveva tremato. Della terra che aveva ceduto. E fissando finalmente il baratro fin nella sua anima scura e senza fondo, l’uomo cominciò ad alleggerire il nido.




mercoledì 10 marzo 2010

Neve tardiva





Se la ricordava bene, la neve tardiva. Era quella neve soffice, farinosa e bianca da far male agli occhi. Era quella neve che ricopriva tutto tranne che le strade, quasi che rimbalzasse da terra per afferrarsi ai cornicioni, ai pergolati e alle tegole, lassù in alto. Era quella neve che entrava inaspettata nel bavero alzato dei cappotti di primavera, appena sotto alla tesa dei cappelli leggeri. Quella neve che riusciva ad alleggerire la mente e il corpo, stanchi per la frenesia di passioni che pare si risveglino ai primi canti di marzo, ma che in realtà si sono mosse fino a ieri sotto il manto invernale e che altro non han fatto che alzare il capo ai primi truffaldini raggi di sole, odorosi di fango ed erba verde.


Qualche giorno prima aveva camminato in riva al fiume. Il freddo non gli impediva certo di gustarsi lo scorrere frusciante dell'acqua trasparente: pareva, anzi, che la rendesse chiara come vetro, profonda come diamante. Accanto al greto ricolmo di sassi scuri, proprio sotto la riva franata e alta che dava sul bosco di querce, aveva trovato una risorgiva: sgorgava lenta e discreta dalle radici degli alberi sbilenchi e penzolanti, con quell'acqua gentile che inverdisce e schiarisce i dintorni di dove s'accumula. La pozza era ricolma di verdi piantine, come un tappeto sommerso che lasciava di tanto in tanto intravedere quella primavera di sassi colorati e di radici tenaci che di lì a poco avrebbero contagiato con la loro tenerezza anche i dintorni lontani del bosco.


Se la ricordava bene, la neve tardiva. Che tardiva non era, e che anni prima ricopriva bosco, fiume e campagna con molta più tenacia di quanto non pretendesse ora. Ogni tanto alzava il naso al cielo, apriva la bocca e lasciava che quella turbinante pace bianca gli baciasse il cuore.


venerdì 5 marzo 2010

Ripensare i consumi?







Quella cornacchia maledetta non la smetteva di ridere.
L’aveva cantata in tutte le lingue conosciute, quanto era buona e succulenta quell’uva, e certo la volpe che stava passando di là non si era persa una parola. Tanto che aveva provato per ore a saltare in alto, in alto per cercare di afferrarne anche un solo, piccolo, succoso acino. Purtroppo non c’era davvero niente da fare: era troppo in alto, e a furia di saltare, prima una zampa messa male, poi il muso che sbatte contro il vitigno, poi un sasso tra le unghie… insomma si stava davvero conciando per le feste. E quella dannata cornacchia ormai aveva smesso di decantare le proprietà del frutto per sbeffeggiarla sempre più rumorosamente.

- Perché al posto di ridere così tanto, non te la mangi tu l’uva, visto che è così buona?
- Perché… Perché… Perché… Perché mi diverto di più a vederti saltare come un pagliaccio, volpona!

La volpe ci pensò su qualche secondo, poi una luce gli balenò in fondo allo sguardo.

- Bah, secondo me non è poi così buona, la vedo da qui… a guardar bene si direbbe marcia!
- Marcia? Macchè marcia! Non vedi com’è lucida e brillante?
- Ti dico che è marcia. Me ne vado, testa vuota!
- E io ti dico che no! Dove vai? Guarda! Guarda!

La cornacchia, indispettita calò un artiglio sull’uva e un grappolo cadde per terra, dove prima c’era la volpe, che ormai si stava allontanando lungo il filare. Vedendo che nemmeno quello attirava l’attenzione del quadrupede, la cornacchia scese a terra, prese il grappolo e, volando, si portò davanti al muso bianco e arancione.

- Vedi! Guarda, guarda se non ci credi!

La volpe vide benissimo. Tanto bene che con un balzo chiuse le fauci attorno al cuore della cornacchia, spiumandola con uno sbuffo e facendone un sol boccone. Poi prese due chicchi per sé e portò il resto alla tana.


venerdì 8 gennaio 2010

Passaggi e paesaggi







Ancora una volta, l’anno vecchio si sedeva al limitare del bosco e passava al nuovo la sua tracolla, ricolma di promesse ancora fresche.

La carovana aveva trovato un buon posto dove sostare, le genti avevano trovato selvaggina per conciar pelli e cucinare, e pareva che i giovani stessero mettendo da parte alcune delle ritrosie e delle arie che si erano dati all’inizio del viaggio, e avessero cominciato a fare la corte alle fanciulle del campo.

La neve certo non facilitava le cose, anche se rendeva tutto assolutamente più romantico. Lavarsi era parecchio fastidioso, ad esempio, ma con il fiume gelato i ragazzi portavano le fanciulle sulle rive innevate e le invitavano a sentire il rumore dell’acqua che scorreva ancora: se poggiavano la mano nuda sulla superficie, per qualche secondo, ne sentivano le vibrazioni sul fondo. E le ragazze ritiravano le dita scaldandosele col sorriso e le guance rosse.

La carovana era in viaggio da molto, e i padri e le madri non avevano idea di dove i loro vecchi volessero condurla. Ma i vecchi sembravano sapere dove stavano andando, e cantavano la strada richiamandone i punti di riferimento con le loro voci profonde e levigate. Ogni tratto di nuovo cammino era scandito dalle loro parole, dai loro volti e dalle loro mani, rivolte ad indicare questo albero contorto o quel versante rosso della montagna: la via era segnata, i volti del mondo gli sorridevano. Sarebbero tornati per poi ripartire.

La notte, i fuochi del campo illuminavano di giallo e oro i tetti dei carrozzoni, disegnando a terra larghi cerchi di terreno senza neve. Lì attorno le madri e i padri si raccoglievano, stanchi ma contenti: le prime buttavano della paglia in terra e i secondi accordavano gli strumenti. I vecchi richiamavano giovani e fanciulle. E la musica cominciava al passo delle danze, o le danze incominciavano al passo delle note.

L’anno nuovo era cominciato, infilandosi la tracolla e voltandosi per riprendere il cammino.



giovedì 24 dicembre 2009

Nella Casa delle Coccinelle








L’avevano chiamata La Casa delle Coccinelle perché c’erano le coccinelle. Erano in tre e se ne stavano rintanate per l’inverno sotto vecchie tende e vecchie coperte in quella vecchia casa.

Le coccinelle erano saltate fuori svolazzando, quando i nuovi inquilini - pretendendo di rinnovare l'ambiente - le aveno accidentalmente distolte dal loro sonno. Imbufalite per il disturbo, avevano subito fatto capire che da lì non se ne sarebbero andate tanto facilmente.

Una aveva occupato l’ultimo piano della libreria, minacciando di volersi buttare giù. Un’altra s’era messa proprio di fianco al frigo, e intimava che se l’avessero sfrattata si sarebbe lasciata morire di freddo buttandosi nel congelatore, la prima volta che lo si fosse lasciato aperto. L’ultima aveva scelto di nascondersi tra gli scatoloni del trasloco al grido di:
Il-nuovo_che-avanza_ti-cambia-copriletto?
Tu_ Coccinella_Su!-fagli-lo-sgambetto!

Insomma, sembrava proprio che da lì non volessero schiodarsi. Erano tre, ma facevano più casino degli operai FIAT quando occupano la Milano-Laghi fuori da Arese. Così, la direzione degli inquilini si decise a mandare avanti un delegato per avviare una trattativa.

Le coccinelle però avevano inteso che quella era solo una manovra degli invasori, e mandarono a monte gli incontri.

Com’è noto, le coccinelle per comunicare usano i gesti, ma non come gli umani che gesticolano con le mani, la testa e a volte le dita: loro gesticolano con le ali, sei zampe, due antenne e quei bellissimi gusci pieni di pois che racchiudono le ali. Una trattativa di quella portata, tuttavia, avrebbe necessitato incontri tête-à-tête: chiamandole a trattare una per volta finiva che quelli le avrebbero messe una contro l’altra, e non avrebbero potuto nemmeno mollare i rispettivi presidi, che sarebbero subito caduti nelle mani del Nemico Invasore.

Insomma, gesticolando, le coccinelle si convinsero che era il momento di provare il tutto per tutto, e optarono per il modello francese. Col favore delle tenebre, abbandonarono in silenzio i loro presidi e si ritrovarono svolazzando in mezzo al salone. Si misero in formazione d’attacco silenzioso e ronzarono all’unisono fino alla stanza da letto principale. Laggiù dormiva l’Invasore.

Entrate nella stanza, le coccinelle schiantarono la porta alle loro spalle. Il clangore spaventevole svegliò di soprassalto l’Invasore che dormiva impunito. Compagne, addosso! Le coccinelle si avventarono su di lui intimandogli Nel nome del diritto alla casa, del diritto al sonno, del diritto all’asilo politico contro il Generale Inverno, ti prendiamo in ostaggio fino alla tua completa e incondizionata resa!

Immobilizzato nelle coperte dalle tre coccinelle per una notte intera, l’Invasore non potè più nulla. Anzi, le sue grida richiamarono ragni e cimici, che si sporsero sospettosi dai loro buchi e si avvicinarono più sicuri quando capirono che cosa stava succedendo. A quel punto, l’Invasore capitolò e riconobbe il valore dei Diritti Inalienabili delle Coccinelle e degli Esseri a più zampe, sottoscrivendo il Trattato di Convivenza che ancora oggi prevede la libera circolazione degli esseri a due o più zampe all’interno dei locali e nelle immediate vicinanze del balcone.

Fu allora che la chiamarono La Casa delle Coccinelle. E il nome rimase.

giovedì 17 dicembre 2009

Una passeggiata Oltremanica






Il ragazzo era in cammino dalla mattina, qualche ora prima.

Avrebbe preso un treno e poi la metropolitana, deciso ad arrivare dove doveva in meno di 30 minuti e poi godersi la mattina in un turbine di novità da riempire anima e stomaco.

Alla prima fermata aveva avuto la sensazione che forse avrebbe cambiato i suoi programmi. Alla seconda fermata aveva avuto la tentazione di urlare. Alla terza fermata era sceso dal treno con un impeto assassino, schiantando la ventina di persone che lo dividevano dall'aria aperta.

Diavolo, avrebbe camminato. Avrebbe tagliato per le passeggiate lungo i canali, avrebbe attraversato i parchi e avrebbe ispezionato vicoli e stradine adornate di muri con mattoni a vista. Non reggeva quell'ammasso di gente accalcata dappertutto. Sui treni, sugli autobus, nelle vie principali, dentro i fastfood, sotto le scale, nei tombini, dietro le insegne pubblicitarie, accanto ai lampioni, lungo il fiume, sui barconi, sopra e sotto i ponti. Pienone ovunque.

Via, via, nervoso e fastidio.
Via dalla gente, cerchiamo un po' di respiro.

Fortunatamente l'aria era fredda e pungente, e il sole non si alzava troppo oltre l'orizzonte. Ne apprezzava il calore che colpiva la giacca e gli scaldava le braccia.

Aveva abbandonato i mezzi di trasporto in una zona imprecisata del conglomerato urbano e - stando alla carta da viaggio - c'era la possibilità di tornare a casa facendo un giro lungo una decina di ore, senza il rischio incrociare nemmeno mezza bionda con tacchi ai piedi, cagnolino al seguito e borse dei regali zeppi di cianfrusaglie dai costi inverosimili sottobraccio.

Aveva staccato il cervello dagli occhi, dalle orecchie e dal naso. Lo aveva messo in collegamento diretto coi piedi. Impegnativo, ma altamente gratificante. Aveva sentito la suola delle sneakers lavorare in sintonia con l'asfalto. Erano scarpe vecchie ma affidabili: ne ebbe la conferma qualche tempo dopo, quando piedi e gambe abbandonarono l'asfalto per calpestare erba, fango e foglie morte.

Fino ad allora, il respiro si era fossilizzato dietro al petto. I polmoni andavano con ansia, come i vecchi pistoni di un treno a vapore, sfiatando ad ogni passo in sintonia con l'andazzo delle braccia e delle spalle. Non appena piedi e gambe avevano abituato il passo al fango e all'erba, anche il respiro era cambiato. Era sceso fin sotto la pancia, allargandola e spingendola con delicata ingordigia, regolando il battito del cuore, ammazzando l'ansia, facendo tornare in vita l'olfatto. Troncando ogni sbuffata e trasformandola in una strana soddisfazione.

Il ragazzo si trovava in un qualche cimitero, pieno di lapidi sverze e sbilenche, immerse in una vegetazione selvaggia e incontrollabile: rovi, rampicanti, edere ormai capaci di soverchiare anche la più alta quercia, anche il più robusto faggio, capaci di penetrare nei mattoni della cappella nel mezzo di quel labirinto di ricordi affettuosi, come a dire che Dalla terra alla terra è un viaggio senza fine.

Dal cimitero era passato in un qualche pertugio del muro, diretto ad un passatoio accanto al canale nascosto là dietro. Dal ballatoio sopra l'acqua era passato attraverso un paio di scatole di cemento - quasi di corsa - per poi ritrovarsi sperso in uno dei prati più grandi e belli che avesse mai visto. L'orizzonte lo inscatolava, certo, ma prima di battere il muso su una di quelle pareti sarebbero passate delle ore. E questo poteva bastare.

Camminando, si portò nel centro della prateria collettiva. Il vociare lontano di bambini, cani, mamme e innamorati non poteva recargli danno: erano schiamazzi simili al canto dei parrots, al rosicchiar di ghiande degli scoiattoli, al picchiettare schietto e sincero delle cince sui rami più ricchi di insettini golosi.

Lì, nel centro della prateria, il ragazzo si sedette sotto un castagno. Una pianta enorme, che portava nel legno il lavorio paziente di secoli e secoli. Torsioni, flessioni, imbarcamenti, pressioni radicali e ramificanti: una muta tenacia, uno sforzo indicibile ed invisibile che ciclicamente tornava dal mondo nel mondo, senza fermarsi mai.

Sotto il castagno il ragazzo si sentì finalmente in pace.
Chiuse gli occhi e spostò il cuore.

Lasciò che scendesse lungo la colonna vertebrale. Che all'altezza della pancia si dividesse in più parti, e che ognuna di esse si divincolasse lungo le gambe, le braccia, la testa, la bocca e le orecchie. Che la dispersione dell'animo e dell'esperienza continuasse in ogni piede, in ogni dito, in ogni pelo e in ogni capello. Che da lì passasse nei fili d'erba, nelle radici, nel terreno. Nelle gocce d'acqua disperse laggiù, nelle radici del castagno, nei rami, nelle sue foglie - le poche rimaste. Da lì il cuore e l'anima si dispersero nell'aria.

Il ragazzo era in cammino dalla mattina, qualche ora prima. Era partito da Londra, si era spostato in Abruzzo, aveva visitato i boschi in Svezia, il giardino storico di una villa a Città dei Vicoli, il suo amato Fiume Azzurro ed era tornato a casa.

Tutto d'un fiato.






sabato 14 novembre 2009

Un venerdì con le cuffiette







Il ragazzo era alto, barbuto e spettinato, con i vestiti un po’ usati, quasi venisse lì per lì da una corsa a perdifiato dietro a chissà quale bel sogno. Parcheggiò la sua auto appena fuori dal numero civico che gli avevano notificato.

- Era la sede di un vecchio supermarket – avevano precisato – non ti puoi sbagliare!.

Di fatti, il vecchio stemma del proprietario blasonava ancora le lunghe e fredde vetrate. Per la metà superiore, le vetrate erano coperte da saracinesche grigie e polverose, per la metà inferiore da uno strato di vernice bianco panna, dal quale permeava la luce giallastra dell’interno.

Il ragazzo suonò il campanello. Una voce squillante non si fece attendere, seguita a ruota dallo scatto elettrico della serratura. Appena tre secondi dopo, una figura altissima ed enorme zampettò dietro le vetrate d’ingresso. Era la Donna Cannone, vestita con una tenda di velluto nero, adornata con più accessori che curve in eccesso e sormontata da un indecifrabile cappellino in lana viola, portato sulle ventitré.

Il ragazzo allungò la mano, presentandosi, e fece scrocchiare qualcosa nascosto nelle dita di quell’insolita figura. Un sorrisino abbozzato da quel viso suino e la stretta molliccia sparì in un lampo, trasformandosi in un ampio gesto di cortesia. Misegualaprego.

Il ragazzo si servì un caffè, si accomodò in una scrivania d’angolo e si mise a leggere. Mentre leggeva, cercava di intuire qualcosa dal gran vociare che arrivava dall’enorme salone alle sue spalle. Buttando un’occhiata di tanto in tanto. Il vecchio supermarket era stato trasformato in un call-centre. Era stato sventrato da scaffali e casse e uffici, per essere rimpinzato con qualche computer e qualche cuffietta, sistemati in una squallida isola di cartone al centro dell’enorme scantinato.

La Donna Cannone era in piedi, in mezzo al salone, tra le scrivanie: si muoveva tra le postazioni telefoniche toccando gli operatori sulla spalla, uno ad uno. Tivedo Tisento Ticontrollo. Alle sue spalle, d’improvviso, spuntò la Donna Gatto, che sinuosa e flessuosa si avvicinò al ragazzo.

- Buongiorno sono Elettra, la Responsabile dell’Azienda, sono contenta che abbia accettato di sostenere il colloquio, siamo un’Azienda Leader nel settore da undici anni e ci occupiamo di vendite telefoniche per un fornitore di servizi informativi nazionale, dopo due mezze giornate di formazione, per il primo mese lavorerà a contratto con la società interinale, alla fine di questo mese, se la valuteremo idoneo, sarà messo sotto contratto a progetto direttamente da Noi, il che prevede 15 euro netti di rimborso spese al giorno e una provvigione del 4% per almeno 14 contratti stipulati nel mese-lavoro. Al termine del progetto, della durata di 3 mesi, sempre che sia nuovamente ritenuto idoneo, le faremo un nuovo contratto a progetto, con due mezze giornate di formazione per il nuovo servizio da vendere: rimborsi e provvigioni rimarranno sempre gli stessi.

- Buongiorno a lei, signora Elettra. – rispose il ragazzo.

- Bene, vedo che lei lavora al mattino, cos’è un’associazione di volontariato la sua? Mmm… e vedo che abita parecchio lontano da qui, spero davvero che questo non sia un problema. Abbiamo già avuto casi di persone che venivano da città lontane e allo scadere del contratto con l’agenzia interinale hanno preferito rinunciare al nostro contratto perché non sopportavano più di dover fare tutta quella strada, confidiamo che lei prenda da subito in considerazione la cosa e che ci pensi bene, prima di farci rifare tutto il lavoro di formazione da capo.

- Non è mai stato un problema fare un po’ di strada per andare al lavoro… –

- Bene, un’altra cosa che voglio sia chiara è che durante i due giorni di formazione che faremo (lei comincerà lunedì) è come trattare con i clienti, certo, ma soprattutto come trattare i clienti. Proprio oggi, ad esempio, un interinale di 48 anni che era con noi da appena due settimane si è preso la libertà di insultare un cliente e poi ha avuto anche la bella faccia di fare lui quello ch’era stato offeso, ha fatto fagotto e se ne è uscito sbattendo la porta!… Non sia mai, intesi? Un atteggiamento del genere rovina il clima positivo delle vendite e mette in cattiva luce tutta l’azienda, gettando nel ridicolo tutta la squadra. Un cliente trattato così è un cliente bruciato. Meno male che quel “signore” se n’è andato prima che riuscissi a prenderlo io, che ero al telefono col cliente da recuperare: lo avrei sbattuto fuori con le mie stesse mani! Che razza di ebete! –

- Ah… come hanno reagito i colleghi? –

- … in che senso scusi? –

- Che cosa hanno detto o fatto i colleghi, quando è successa questa cosa? –

- Che domande… gli si sono messi a ridere in faccia! Cosa puoi fare con uno così? Una come me passa anni a costruire un bel gruppo di venditori, con un bel senso di sana competitività, una sana voglia di fare meglio degli altri, sempre a spingersi per migliorarsi a vicenda… e poi arriva un tizio che fa una scenata del genere! Non le dico come hanno reagito! Se le facessi vedere il grafico giornaliero di ieri e il grafico giornaliero di oggi capirebbe che dramma è stato! –

- …

- Ascolti… allora noi ci vediamo lunedì alle 14.00. Puntuale, la prego, che cominciamo la formazione con gli altri nuovi come lei. Martedì prova pratica, da mercoledì si comincia con le vendite reali.

- Uh, certo, come no.

Il ragazzo si alzò, si infilò sciarpa e cappello. Raccolse lo zaino, strinse qualche mano. Con un sorriso ebete stampato in faccia. La sensazione di stordimento era completa, abissale. Uscì in strada, e l’aria fredda e buia della sera lo accolse come un abbraccio tenero e consolatorio. Di stelle non se ne vedevano, dietro ai lampioni, ma lui sapeva ch’erano là.

Il ragazzo salì in macchina. Un mese pagato dall’interinale e poi piantare un casino tale da farsi licenziare. Urlare in faccia a quella Gatta Morta che il lavoro è sacro, che il lavoratore è sacro. Che quello che offriva lei non era lavoro, ma uno schifo di schiavitù, e che quelli lì alle scrivanie non erano lavoratori, ma schiavi inebetiti da scrollare, da svegliare. Urlare a tutti di prendete coscienza, che il signore di 48 anni sì che sapeva cos’era la dignità!

Aveva bisogno di lavorare, il ragazzo, ma a tutto c’era un limite. Certo, non lo aveva mai fatto prima, di farsi licenziare.

Un sorriso gli si abbozzò sincero, illuminandogli gli occhi. Aveva tutto un fine settimana per decidere.


venerdì 5 giugno 2009

La storia dei due ricci
















La giornata era una di quelle piene di sole, alla fine dell'estate. L'aria era chiara e trasparente e persino le zanzare avevano capito che mettersi a volare con un cielo del genere sarebbe stato un delitto sociale. Così la brezza svolazzava leggera tra le fronde degi alberi e l'enorme disco dorato splendeva incastonato in un indaco compatto e senza striature.

Due ricci se ne andavano, ognuno per la sua strada, lungo i sentieri del Grande Prato: sotto le siepi, in mezzo agli aghi dei Cedri, sgambettando per il verde smeraldo dell'erba appena rasata e il giallo paglierino del fieno lasciato sul campo. Tutti e due avevano il naso all'insù: un piccolo bottoncino nero umido, fissato sul musetto morbido, appena sotto un paio di occhi tanto meravigliati dalla bellezza della giornata da starsene spalancati come un poderoso sbadiglio.

Il primo riccio, che poi era una Riccia, se ne scendeva dalla collina. Aveva gustato la frescura dei boschi e se ne tornava tranquillamente verso il fondovalle, dove scorreva il fiume. Aveva sentito parlare di una pozza dove potersi fare il bagno senza doversi preoccupare dei corvi o di attraversare la strada. Si vedeva che aveva letto Gramsci. Portava sulla schiena un'enorme mela rossa, tutta lucida e luccicante: l'aveva raccolta sotto il grande melo a mezzacosta, rotolandosi su un lato, finché non era riuscita a infilzarla ben bene nei suoi aculei. Ora se ne camminava via, un po' barcollando sotto quel peso gigante, un po' chiedendosi come avrebbe fatto a mangiarsela, questa mela, ora che ce l'aveva sulla schiena.

Il secondo riccio, che era poi un Riccio, stava risalendo il prato verso la collina. Era stato al fiume a darsi una rinfrescata e aveva sentito dire che su per i monti, proprio lungo le siepi del campo, si poteva incontrare un grande melo, le cui mele erano senz'altro tra le più succose e dolci della valle. Era un riccio strambo, lo conoscevano un po' tutti, da quelle parti: sempre dietro a parlare di cose difficili - che chiamava concetti - boffonchiava d'aver letto Shopenauer e passava gli inverni ad inseguire le altre ricce cercando di avvicinarle il più possibile, Per scaldarci a vicenda! diceva convincente - sbagliando poi clamorosamente le distanze e finendo inevitabilmente per farsi pungere e scappar via.

Nel loro camminare col musetto all'insù, i due ricci si giravano di qua e di là: ora guardavano che nessuno fosse nascosto dietro un cespuglio per portarseli a casa in un sacco, ora seguivano con lo sguardo lo svolgersi delle radici di farnie e faggi, ora ascoltavano rapiti il vento che frusciava tra le fronde delle siepi, ora porgevano le orecchie ai richiami di usignoli e fringuelli. Mai che guardassero dove stavano andando o dove mettessero le zampette.

Un bel momento, appena prima di imbucare la via del bosco, il Riccio di Shopenauer sentì un gran roboare di cose rotolanti. Qualcosa a metà tra il rosso lucente e il marrone pungente gli fu addosso, sbucando d'un salto dalla siepe e trascinandoselo via lungo il pendio della collina: fino in fondo al prato, proprio in mezzo al sole.

Proprio un attimo prima, mentre ammirava estasiata il volo d'una piuma, la Riccia di Gramsci aveva cominciato a rotolarsene giù per la collina picchiando la mela, il muso e la schiena tra i sassi e le radici. Cozzò a tutta velocità su un'ultima radice, rimbalzandosene in aria per poi travolgere qualcosa di incredibilmente morbido e stranamente pungente, trascinandoselo via lungo il pendio della collina: fino in fondo al prato, proprio in mezzo al sole.

A quel punto, Riccio e Riccia cercarono di rimettersi in piedi, un po' intontiti. Il sole gli riempiva gli occhi, e il paesaggio intorno stentava a farsi sempre più nitido.

Riccio si accorse che qualcosa non quadrava. La sua schiena era appesantita e i suoi aculei erano come impigliati: non che riuscisse a girarsi per guardare, ma gli sembrava come se qualcosa di rosso e lucido, un po' tondo e un po' no, gli si fosse infilzato addosso. Anche Riccia s'era accorta che qualcosa era cambiato: il capitombolo aveva spezzato la mela, metà della quale s'era incuneata sulla schiena di quel buffo riccio steso lì davanti, a grattarsi la testa sconcertato.

Messo a fuoco il mondo, le pupille nere e profonde dei due si incrociarono.

- Hai metà della mia mela sulla tua schiena, Shopenauer... - La voce sorridente di Riccia si fece sentire

- Uh, come? Ah, la mela... E' una metà mela questa? Proprio qui, sul mio dorso? Dì un po', Gramsci, sarà mica una di quelle rosse e succose del melo a mezzacosta? - La voce titubante di Riccio era un unico punto interrogativo.

- Eh, sì... l'ho raccolta da poco... Se vuoi puoi assaggiare un po' della mia metà...

- Uh, davvero? ...Beh, potrei pensarci, grazie... Direi che sembra proprio una delizia!

E se ne zampettarono via insieme, felici e contenti di mordicchiarsi di tanto in tanto, alla giusta distanza di mezza mela.





giovedì 9 aprile 2009

Le ultime libertà dell'uomo delle reti











A voler ben vedere, quel pezzo d'uomo che se ne stava curvo sulle reti non era malconcio come lo raccontavano. Passava dei gran giorni in mare, a strappare via i pesci dalle corde intrecciate e ne aveva il puzzo sulle mani, nell'alito, nei capelli - quelli che c'erano, quelli corti e ingrigiti che gli giravano attorno alla nuca e sfioravano le tempie. E' vero, aveva il passo malfermo, quando camminava sul molo, ma quell'andatura ondosa sembrava dargli l'innata capacità di passare tra la gente come l'acqua di riflusso tra gli scogli: senza che nessuno lo vedesse, senza che nessuno si accorgesse di lui. Eccetto, certo, per la scia di pesce che si lasciava dietro: ma in un porto, chi voltete che se ne accorga?

Era lì, che se ne stava accovacciato, a cacciar dentro le mani in una cassa gigante, tirando fuori un filo alla volta le sue reti immense, col volto corrucciato e attento. Ogni nodo sfatto, lo riannodava, ogni maglia strappata, la rammendava, ogni cordino intrecciato, lo disfava. E le dita, tozze e di marmo, parevano filare le corde come un ragno fila la seta: pareva che i fili uscissero dalla punta delle dita, come lacrime, una ad una, in un pianto silenzioso e incupito. A sentire la gente, non era un bello spettacolo averci a che fare. Quelle mani, che lavoravano sulle reti con la delicatezza del burro, sapevano spezzare un remo come fosse il collo d'un gabbiano e sapevano maneggiare i coltelli da intarsio con sicurezza e abilità ben note agli stomaci di chi aveva avuto la malaugurata idea di contraddirlo, nel corso degli anni.

Buono buono, se ne stava contemplando quella matassa che gli usciva dalle mani, con lo sguardo perso oltre le dita, oltre i fili, oltre le reti. Sicuramente pensava alla sera prima. Alla sera in cui, rientrato in porto, rientrato a casa, ad un certo punto s'era trovato più solo di quanto non fosse mai stato. Forse non ricordava bene che cosa fosse successo. O forse lo aveva ben chiaro ma i suoi occhi si rifiutavano di andare a cercare tra le pieghe dei ricordi. O forse preferiva perdere la vista in un insieme sfuocato di onde e riflessi di sole. Per non rivedere quegli occhi azzurri che si gli spegnevano tra le mani serrate, per non rivedere quelle labbra rosse storpiate da un grido strozzato.

Avremmo potuto restare a guardarlo per giorni. Le sue mani filavano ancora quando le nostre ombre gli coprirono il capo. Alzò la testa e con occhi scavati guardò dritto nei nostri. Il volto, i solchi e la pelle: tutto raccontava di mille storie e viaggi ed esperienze. Gli occhi, però, parevano vuoti. E le mani continuavano a filare. Un gioco di sguardi, tra noi e lui, e le mani, sistematiche, posarono attrezzi e reti con la cura di sempre. L'uomo delle reti si alzò, sovrastandoci. Tirò su le maniche della camicia ormai lisa, e tese avanti i polsi.

Abbiamo fatto scattare le manette, ben sapendo che comunque non sarebbe scappato.

martedì 28 ottobre 2008

La fiaba del castoro testardo


Stufo di continuare a fare e disfare tane e dighe ad ogni piena o acquazzone, un giorno, un castoro si intestardì e decise che avrebbe eretto la più grande e possente delle dighe. Mai nessuna piena, mai nessuna pioggia, mai nessuna calamità avrebbe potuto infrangerla o travolgerla.


Avrebbe avuto piccoli canali di sfogo, grossi tronchi di mezzana e sostegno, e chiuse da aprire a piacimento. Sarebbe stata tutta costruita con la sola forza dei suoi dentini aguzzi e delle sue zampette pelose. Avrebbe trasportato grossi tronchi e piccoli rametti spingendo veloce la sua coda pinnuta da un capo all'altro del fiume, andando a cercare quello di cui aveva bisogno fin dentro la foresta.

Avrebbe prediletto i tronchi di ontano e salice per le fondamenta, mentre avrebbe cercato le querce e i faggi per le travi e i sostegni. Avrebbe cercato i noccioli per i piccoli pertugi e le foglie di castagno per tappare i buchi che inevitabilmente si sarebbero aperti, qui e là.

Piano piano, un passo alla volta, il piccolo castoro si mise all'opera. E con il tempo i risultati non tardarono. Il corso del fiume cominciava a ingrossarsi, allargandosi in un piccolo lago alle spalle della diga.

Ogni piccolo tronco era una goccia fermata.

Lavorando alacremente, il piccolo castoro non si era reso conto degli animali della foresta che lo guardavano come fosse uscito di senno. Che cosa voleva fare, allagare la valle? E Tutti gli animali che vivevano vicino al fiume, a loro non pensava?
Niente da fare.

Il piccolo castoro sgagnava tronchi come nessuno dei suoi simili aveva mai saputo fare. Dentate veloci e precise troncavano anche gli ostacoli più duri. E una maestria ingegneristica innata gli permetteva di incastrare i fusti così bene da trovare risposta alle più assurde domande della Fisica.


Alla fine, soddisfatto, il castoro si fermò e chiuse gli occhi.
Conosceva la sua diga centimetro per centimetro.
E dai centimetri si fece guidare fino alla sommità.

Arrivato in cima, aprì gli occhi e vide davanti a sé un nuovo, immenso lago. Sulla superficie del lago il sole rosso del tramonto sfavillava e ballava, portato sulla musica del primo vento d'autunno.


Il cuore del castoro traboccava.
La sua diga c'era. Era forte. Era la diga più forte del Creato.
Il fiume era scomparso.
La valle era sommersa.
I torrenti scendevano tranquilli fino allo specchio d'acqua.


E ora?
Si chiese il piccolo castoro.


E ora che faccio?
Si ripetè il piccolo castoro.


E ora dove la costruisco un'altra diga?
Rifletté il piccolo castoro.


Sospirò, e scese lentamente verso l'ultimo legnetto che aveva inserito nel suo capolavoro, in fondo: dove una volta scorreva il fiume.


Se ne faccio uscire solo un poco, più a valle avrò ancora un posto dove costruire altre dighe.
Si disse convinto.


Afferrò il legnetto tra i denti.
Lo tirò.

Un piccolo rivolo cominciò a sgorgare.

Il castoro sorrise. Soddisfatto.


E poi più nulla.







lunedì 6 ottobre 2008

Storia di un armatore e del marinaio chiamato a sostituirlo





L'Armatore di una famosa baleniera si era trovato a dover affrontare un affare piuttosto incombente, e non avrebbe potuto seguire a dovere i preparativi per la partenza. Assieme al Comandante aveva quindi deciso di passare le consegne ad un'altra persona, quando sarebbe giunto il momento. Dovendo poi sbrigare delle faccende, lasciò che di questa scelta se ne occupasse il Comandante in persona.

Capitava in quel periodo che in quella zona passassero diversi stranieri. Persone dalle esperienze più diverse e interessate a nuovi incarichi, tra i più disparati. Tra essi era anche un marinaio che aveva navigato un po' ovunque e un po' con chiunque, dalla marina mercantile alle navi passeggere, e persino con altre baleniere - ingaggio che gli calzava come un guanto.

Tra tutti i marinai e i contabili che il Comandante interpellò per sostituire l'Armatore, venne scelto proprio quel Marinaio.

Ora, il Marinaio non sapeva nulla su come si armasse una nave. Non sapeva da che parte girarsi per arruolare altri marinai, o per fare un ordine di viveri, non sapeva valutare se questo carico andasse acquistato da quel rivenditore o da quell'altro e non sapeva nemmeno come fare tutti quei conti o come compilare tutti quei dannati fogli dei registri, sui quali si diceva chi aveva venduto cosa e cosa andava consegnato dove.

Però conosceva a menadito le bruciature delle corde che corrono tra le dita, il dolore della schiena rotta sui remi, il puzzo degli stracci usati per pulire e ripulire il ponte nelle giornate di bonaccia, lo sforzo di braccia e gambe mentre si issavano e caricavano i barili sul ponte e sottocoperta. Insomma, sapeva come stare in mare. E sapeva che cosa significasse.

Questo aveva valutato il Comandante. Il resto, ne era certo, lo avrebbe appreso sotto la guida temporanea dell'Armatore. Così, aveva deciso di dare pieno appoggio al nuovo arrivato: avrebbe concesso al Marinaio un periodo di assestamento, nel quale fare domande, errori e confusione a patto che imparasse il lavoro a costo di sputare sangue.

L'Armatore, avvisato a scelta fatta, non era dello stesso parere. Chi era questo sconosciuto che metteva mano tra i suoi carteggi e scarabocchiava sulle sue tabelle? Come avrebbe fatto ad imparare i nomi, le facce, i vizi e le virtù di tutti i clienti e i fornitori? Come osava far sapere a tutti che lo avrebbe sostituito? Come pensava solo lontanamente di riuscirci?

Così, tra l'Armatore e il Marinaio si stabilì uno strano rapporto. L'Armatore usava un tono paternalistico e cercava di mostrare al Marinaio i segreti del mestiere, ma solo quelli strettamente necessari. Quando il Marinaio domandava, l'Armatore rispondeva con fare un po' piccato ma in modo puntuale. Quando il Marinaio faceva confusione, l'Armatore ne rideva e non mancava di farne ridere anche il Comandante.

Cosa strana, capitava - in totale confidenza - che l'Armatore parlasse male del Comandante col Marinaio, quasi a volerlo avvertire di antichi dissapori sopiti ma mai del tutto estinti.

Il caos di quelle giornate prima della partenza era indescrivibile, ma comunque fosse gli ordini si facevano, le casse si imbarcavano, gli uomini si arruolavano, i rapporti al Comandante e alla Capitaneria di Porto erano regolari.
La nave sarebbe stata pronta, Armatore o non Armatore.

Dopo solo qualche giorno, una mattina, l'Armatore non si presentò sul ponte.
Al suo posto, una lettera sigillata in ceralacca, indirizzata al Comandante e all'intero Consiglio della Capitaneria di porto. Gli impegni urgenti che lo avrebbero allontanato dalla nave di lì a breve si erano fatti ancora più urgenti, e quindi da quel giorno i suoi lavori sarebbero ricaduti in toto sul Comandante e sul Marinaio, con o senza la sua formazione.

Molto garbatamente, ma in maniera del tutto esplicita e formale, contestava la scelta del Comandante, auspicava che in sua assenza la nave sarebbe stata in qualche modo in grado di affrontare il prossimo viaggio senza naufragare, e chiedeva che il giovane Marinaio fosse seguito passo passo, perché disordinato, inesperto, inadatto ed inadeguato alle mansioni che gli si chiedeva di adempiere.

Il Comandante rassicurò il marinaio che il Consiglio non aveva preso nemmeno in considerazione quelle parole: fino ad allora si era comportato bene, ed era davvero troppo prematuro esprimere un giudizio tanto netto e universale.

Nel Marinaio, però, la sensazione di sgomento era devastante. Ed il senso di rivalsa, prima d'allora completamente estraneo al suo cuore, si era ormai fatto strada, mettendovi radici. Si sarebbe preparato a dovere, e al rientro dell'Armatore sì che avrebbero fatto i conti.

L'Armatore non ne aveva idea, ma aveva aperto le danze con un avversario forse un po' goffo, ma decisamente instancabile.



lunedì 29 settembre 2008

La leggenda del vecchio stupido indiano





Un vecchio stupido indiano era solito andare a caccia solo. Non che non gli piacesse stare con gli altri indiani, ma un po' lo infastidivano i loro schiamazzi, un po' lo infastidivano gli sguardi d'intesa dai quali si teneva fuori, un po' lo infastidivano le parole vuote e blaterate, e un po' lo infastidivano i commenti degli altri cacciatori. Perchè il vecchio stupido indiano cacciava solo volpi.


Da sempre, al vecchio stupido indiano interessava starsene da solo, inventare i propri racconti, disegnare le proprie avventure e, con quelle, stupire un qualche passante che incrociava la sua strada, di tanto intanto. Lo conoscevano tutti, il vecchio stupido indiano, ma nessuno sapeva bene che cosa avesse per la testa.


Era capitato, tempo prima, che l'indiano - allora più giovane e più ingenuo - si trovasse a caccia tutto solo, intento ad inseguire non si sa bene se una lepre o un capriolo. Correndo per il sottobosco, il giovane vecchio indiano si imbattè in una volpe. Una volpe bellissima, fulgida e profumata di selvatico, con gli occhi accesi e vividi. Una volpe ferita, con una zampa imprigionata in una tagliola. Una volpe stremata, ma ancora così accesa di rabbia da ringhiare e agitarsi nervosamente.


Il giovane vecchio indiano se ne innamorò perdutamente. Si tolse la giacca di pelle e vi avvolse la volpe e la tagliola. Facendo ben attenzione a coprire gli occhi della bestiola, così che si calmasse un poco. Sollevatala, la portò con sè in una radura isolata e lì costruì una tenda. Vi portò tutte le erbe medicinali che conosceva e con una pazienza incredibile aiutò la volpe a togliersi dalla tagliola e a far guarire i profondi tagli che le laceravano le zampe. La volpe cercò ripetutamente di mordere la mano del giovane vecchio indiano, ma questi non la spostò mai. Si lasciò mordere tutte le volte, finché i morsi non si trasformarono in flebili leccate.


Il tempo passò, e il giovane vecchio indiano invecchiò un poco. E la volpe, ancora zoppicante, con lui. Non uscivano mai soli e non si allontanavano mai troppo dalla radura. Il suo amore per quella coda e quegli occhi che di notte si accendevano erano ormai cosa nota. E tutti cominciavano a dire che il vecchio indiano non era mica tanto a posto, che una volpe è una volpe e le volpi non si addomesticano mai, anche se sono meno pericolose dei lupi. Insomma, il vecchio indiano diventò il vecchio stupido indiano, dal cuore annebbiato e dalla mente fuori asse.


Un giorno, la volpe, che aveva quasi smesso di zoppicare, uscì da sola dalla tenda. Attirata da un rumore sconosciuto quanto curioso, si diresse verso il limitare del bosco. Al limitare del bosco, si spinse fin'oltre i primi arbusti. Dai primi arbusti fino alle grandi querce. E arrivata lì non si voltò più indietro. Il vecchio stupido indiano si alzò di soprassalto e non vedendo l'amata volpe al suo posto, uscì in fretta dalla capanna e ne seguì le impronte. Riuscì a vedere dove l'amata si era fermata per voltarsi. Una, due, tre volte. Riuscì a distinguere quando l'amata aveva ripreso la corsa. Una, due, tre volte. Sempre più a lungo, sempre più veloce. Senza più fermarsi.


Non si sa bene quanto tempo lo stupido vecchio indiano sia rimasto nel bosco, girando ogni pietra e invocando il nome della sua volpe ad ogni foglia calpestata. Si sa solo che da allora, il vecchio va a caccia esclusivamente da solo. E caccia esclusivamente volpi. Le avvicina e prova ad accarezzarle. Quelle che si lasciano accarezzare, le lega ad un albero. Quelle che lo mordono, porge loro l'altra mano.