"Le storie servono alla poesia, alla musica, all'utopia, all'impegno politico: insomma all'uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché in apparenza non servono a niente: come le poesie e la musica, come il teatro e lo sport... Servono all'uomo completo e, vorrei aggiungere, a completare un uomo."
Gianni Rodari


martedì 27 aprile 2010

Intimità nascoste





Quella sera il mondo aveva architettato per regalargli del tempo tutto per lui. Succedeva, ogni tanto, ma anche quando accadeva i pensieri delle cose da fare da dire da rimandare da rifare erano troppi.

Così quella sera il mondo aveva fatto in modo che si trovasse solo, seduto su una sedia di paglia, davanti ad un tavolo in legno sbrindellato, con in mano una radice di salice tutta piena di muschio secco e terriccio rosso. Lui, una piccola tazza di thé beduino e gli attrezzi per cavare da quel brandello di albero qualcosa che gli dicesse che senso aveva la vita, lasciando scorrere le dita negli incavi, tra la segatura, a cercarne le forme nascoste.

E il mondo aveva deciso che a fare da contorno a quelle intime soddisfazioni ci sarebbe stato un buio come non se ne vedevano da secoli, a cavallo di nuvole cariche di pioggia e lampi e tuoni. Lui aveva deciso che sì, accettava l'intimità offertagli dal vento e dalla pioggia. Così scostò i pensieri, aprì bene le finestre, spostò il tavolo e la sedia paglierina vicini al balcone e spense tutte le luci della sera, tranne una piccola piccola: a illuminare le dita, il legno e il rombo dei tuoni.



mercoledì 14 aprile 2010

Il vento gira





Qualche giorno prima il vento era cambiato, e la nave scorreva veloce. Gli uomini si godevano il sole e le nuvole di cotone. Il lavoro di braccia e gambe era più lieve, anche se i segni delle corde e del sale erano evidenti più che mai.

Anche il capitano preferiva stare all'aperto. E la sua voce aveva cambiato tono e battuta. Ora le parole non calavano più come scuri o mannaie sulle orecchie degli uomini alle vele: assomigliavano semmai alle gocce di pioggia decise e insistenti di un rinfrescante acquazzone estivo.

Da qualche giorno il vento era cambiato, la fatica era soddisfacente e la nave viaggiava senza gradi intoppi. Si preparavano gli arpioni, le funi e i barili per la caccia grossa. Qualche punto interrogativo sulla rotta restava, ma quello, del resto, era sempre dipeso dall'apparire delle balene.




giovedì 8 aprile 2010

Scappate, scappate: le inquisizioni son tornate!






La paura che spingeva a chiudersi in casa con la luna piena.

È questa la sorta di maleficio che attanaglia le nostre case, le nostre piazze, i nostri punti di ritrovo.

È quella specie di maledizione grazie alla quale qualunque cosa brutta che accade era (ed è) da attribuirsi alle "facce brutte", alle "schiene curve", ai "nasi bitorzoluti", alle "gambe zoppe", alle "mani storpie".

È superstizione, è diceria, è creduleria.
È la rivincita del mediocre, che pur d’essere ascoltato s’inventa la qualunque storiazza.
È l’orgoglio del mediocre, che mette insieme due notizie raffazzonate e sforna la ricetta per sconfiggere il Male Assoluto, che ribalta la propria misera esperienza in saggezza popolare, in verità, in bene, in meglio, e la getta in pasto agli spaventati astanti come fosse mangime per le galline. E quelli a pigolare e sbeccheggiare qui e là, quelle parole semplici e dirette, senza alcun contenuto nascosto.

- E’ la strega: bruciamola!

- E’ quello sgorbio d’un nano gibbone: cacciamolo!

- E’ colpa di quell’indemoniato: friggiamolo!

E venivano bruciate donne che curavano la gente con le erbe, o donne che avevano la sola colpa di essere oggettivamente brutte e baffute. E venivano allontanati uomini e ragazzi improduttivi, magari dalla sensibilità spiccata ma dall’incapacità di comunicarla col linguaggio comune. E venivano fritti poveri epilettici la cui unica colpa era quella di mettere a disagio un’intera comunità, schiaffandogli in faccia l’ignoranza di un male complesso e profondo.

Questo tempo, quello in cui viviamo, mi sembra quel tempo, nel quale la diversità, la povertà, l’improduttività, l’ignoto venivano additati come forieri di sventura, di aria malsana, di pestilenza e pustole. Ma è diceria, è creduleria, è superstizione, è faciloneria.

È paura. È la paura che fa scegliere di chiudersi a riccio anziché aprirsi alle alternative. È la paura che fa alzare gli scudi, anziché imbandire le tavole. È la paura che sceglie di creare identità farlocche e artefatte per difendersi da un Altro, altrettanto farlocco e artefatto, volontariamente sconosciuto e inconoscibile.

È la paura che non permette la creatività delle scelte, che spinge per l’urgenza, per la semplificazione, per la via breve.

È la paura che fa scegliere la politica del fare senza progetto e rifiuta in tronco la politica del progettare per agire.

È la paura che fa scegliere soluzioni esclusive, che creano situazioni di privilegio sempre più ristrette. E che darà i natali ad altrettante nuove situazioni problematiche, mai considerate e spaventerrime.

Lo sforzo, ora, non è quello della soluzione rapida. È quello di guardare al problema ed evitare la soluzione rapida. Evitare la soluzione semplice. Evadere dalla convinzione che nella semplicità dell’azione si nasconda la piena applicazione della soluzione.

Aprire il dialogo anche al diverso, al povero, all’improduttivo e all’ignoto ci permette di rendere la soluzione complessa e articolata, proprio come è la vera struttura sociale: che comprende e giostra tutti questi elementi assieme a quelli “uguali”, “ricchi”, “produttivi” e “ri-conosciuti”.

Amplificare la complessità del progetto significa garantire una struttura complessa delle azioni concrete e una più ampia gamma di possibilità che includano altre casistiche non considerate.


Insomma, voglio dire: più la soluzione è creativa e allargata, più ci si diverte a cercarla e più abbiamo il culo parato in caso nascano altri problemi: come si fa a non capirla!


Lo avevo detto in qualche modo anche qui. Qualcuno poi mi ha fatto riflettere ancora con questo. Il resto l'ha fatto una chiacchierata con l'edicolante del vecchio paese.



mercoledì 7 aprile 2010

Immersione tra le fronde...






Alcune letture della carovana, in questi tempi...


“Il Libro dell’Inquietudine di Bernardo Soares” scritto da Fernando Pessoa. Uno zibaldone di pensieri che rileggono in profondità la banalità del quotidiano, ridando un forte senso di disorientamento e di costante ricerca dell’essere se stessi e del desiderio d’essere altro, altrove, in altri momenti.


“1o giorni che fecero tremare il mondo” scritto da John Reed. Un resoconto vivamente sentito della Rivoluzione Russa: una fotografia in progressione della società e delle condizioni che portarono alla esplosione di quello che sarebbe stato il popolo sovietico.


“Terra-patria” scritto da Edgar Morin e Anne Brigitte Kern. Lucida descrizione del pensiero terrestre: quella filosofia che prescinde da teorie politiche o ideologiche e che vede nel Pianeta Terra l’unica e sola Casa viaggiante per tutto il genere umano.


“La sfida della complessità” a cura di Gianluca Bocci e Mauro Ceruti. Un enorme compendio non esaustivo ma appagante dei discorsi attorno alla epistemologia della complessità, all’incertezza della conoscenza, alla fallacità della scienza positivista e determinista, alla forma mentis che ci accompagna da qualche decennio ma che ancora non comprendiamo né tanto meno governiamo. Uno sguardo oltre il Pensiero unico, la Semplificazione dei fatti, il Rasoio di Ockham.


“Ricercare e Riflettere” scritto da Luigina Mortari. Perché la formazione di un docente dovrebbe fermarsi alla sola trasmissione di nozioni e contenuti? Insegnare non è forse instaurare e gestire relazioni docente-alunno e docente-colleghi? E queste relazioni non sono fatte anche di emotività, feedback, principi? Quali strumenti dovrebbe saper gestire, quindi, un docente per migliorarsi e migliorare le relazioni che instaura in ambito professionale?


“Le donne della pesca e del lago” scritto e interpretato da Betty Colombo. Commovente spettacolo teatrale della vita quotidiana che fu, narrato e trascritto da una delle autrici/attrici più genuine che la Provincia dei sette laghi abbia mai conosciuto.






Interrogarsi 2








E qual è la parola per dire di quando cammini per strada sulla via del ritorno e ritrovi qualcosa che pensavi di non avere con te e che invece ti era scivolata dalla tasca all'andata, e la tiri su da terra e passi delle ore a fissarla chiedendoti se è veramente la tua o no?







martedì 6 aprile 2010

Interrogarsi...








Qual è la parola per dire di quando cammini per strada sulla via del ritorno e ritrovi qualcosa che pensavi di non avere con te e che invece ti era scivolata dalla tasca all'andata?










domenica 4 aprile 2010

Il nido pensile





L’uomo camminava sulle radici e sui tronchi con una destrezza invidiabile. Ormai non faceva più nemmeno caso al baratro che si apriva appena sotto. Era da tempo che non metteva il piede in fallo, che non rischiava di cadere, ed era da ancora più tempo che non gettava l’occhio laggiù, nel nero fondo del nulla che aveva sotto i piedi.

Un giorno di molto tempo prima la terra aveva tremato, proprio là dove l’uomo stava costruendo la sua casa. La terra aveva tremato e uno scisma colossale si era portato via il terreno da sotto i suoi piedi. Ad essere precisi s’era ingoiato tutta la casa e gran parte della foresta che c’era lì attorno. L’uomo allora era caduto. A corpo morto era caduto: giù, lungo il crepaccio incommensurabile. E mentre cadeva aveva gettato le mani alla rinfusa, afferrando qua e là delle radici che ancora sporgevano dalla parete del burrone. Le prime si spezzarono, restandogli tra le mani segnate. Altre nemmeno si accorsero della sua presa. Altre ancora invece lo aiutarono a rallentare la caduta, fino ad arrestarla. Il fondo della terra spaccata era così nero da non riuscire a vedersi, e l’uomo aveva tremato con ogni muscolo, con ogni cuore, con ogni goccia di sudore che ancora gli restava. Di scatto aveva strappato lo sguardo da quel terrore, volgendolo verso l’alto, costringendosi a non vedere quello che lo aspettava dietro le spalle e sotto i piedi, se solo avesse perso la presa. Coi denti, le unghie, gli alluci, le ginocchia e i gomiti, alla fine, cominciò una lunghissima risalita.

In verità era caduto così a fondo che il tempo impiegato per conquistare qualche tratto verso il bordo del precipizio fu lo stesso impiegato dalle radici e dalle piccole piante a strapiombo per crescere e diventare arbusti, e poi alberi. Così radice dopo radice e ramo dopo ramo, l’uomo aveva avanzato verso il bordo, sempre più vicino. Successe però che, piano piano, l’uomo smise di arrampicarsi e cominciò a spezzare e tagliare rami e tronchi e liane per sistemarli come meglio poteva: all’inizio per facilitare l’ascesa, poi per cercare acqua e ristoro, più in là per fermarsi a riposare. Ecco allora che le radici e le liane e gli alberi che avevano frenato la sua caduta divennero col tempo il suo nido pensile.

Ora l’uomo camminava sulle radici e sui tronchi con una destrezza invidiabile. Tempi e giorni e stagioni gli erano occorse per acquisire quell’abilità: di ogni pezzetto di legno sapeva soppesare la portata con uno sguardo e laddove percepiva una mancanza - o laddove ci fosse anche solo il minimo sospetto di riuscire a intravedere il nero vuoto sottostante - l’uomo correva istintivamente ai ripari ponendo nuovi rami, nuove travi, nuove liane. Il rifugio era diventato tanto immenso e articolato da toccare l'altro lato del burrone, mentre l’uomo passava le sue giornate a saltare da un ramo all’altro per sistemare, qui e là, questo o quel pezzo. Fu proprio durante una di queste operazioni che successe. Arrivando per rinforzare un pavimento ancora troppo sottile, l’uomo poggiò rami e frasche su uno dei rami portanti: con uno schianto il ramo si spezzò. Con un soffio sordo e frusciante, gran parte della pavimentazione del rifugio fuggì verso il baratro.

E l’uomo si ricordò della terra che aveva tremato. Della terra che aveva ceduto. E fissando finalmente il baratro fin nella sua anima scura e senza fondo, l’uomo cominciò ad alleggerire il nido.