"Le storie servono alla poesia, alla musica, all'utopia, all'impegno politico: insomma all'uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché in apparenza non servono a niente: come le poesie e la musica, come il teatro e lo sport... Servono all'uomo completo e, vorrei aggiungere, a completare un uomo."
Gianni Rodari


lunedì 27 aprile 2009

Giorno per giorno
















Due giorni di fumo di griglia, ottimi vini, lividi di gioco, palloni volanti, coccole e risate, lupi e villici, battaglie di cuscini, sculture di pietra, equilibri impossibili, vestiti bagnati, documentari antropologici e resistenza: alla nostalgia, alla omologazione, all'assenza di senso, alle paranoie, alla vigliaccheria, alla ipocrisia. Verso il sorriso ammiccante di un avvenire improbabile, ma più che desiderabile e assolutamente sostenibile.






Un grazie speciale alla Fata anarchica,
per il suo corso accelerato di feng-sushi,
sul passaggio dei flussi di equilibrio dalla mente,
al cuore, alle mani, alle pietre del giorno.








sabato 25 aprile 2009

VenticinqueaprileDuemilanove








Un post complicato, questo del Venticinqueaprile Duemilanove.Non complesso, proprio complicato: non c'è una trama ben delineata, e i pensieri si attorcigliano ogni volta di più, quando provo a metterci mano.


***


C'è Scientology, rientrata nella mia vita in maniera prepotente, per un errore tanto grave quanto banale. Una manica di delinquenti, che fanno leva su sentimenti quali il sospetto, la rivalsa, il desiderio d'essere vincenti. Ma il sospetto, prima di tutto.


Offrono strumenti per essere vincenti. Non tutti subito, sia chiaro. Un passo alla volta, perchè mica si possono capire tutte le verità in una botta sola. Allora, per essere vincenti, dicono, devi imparare a capire chi attorno a te sta mentendo, sbagliando, tramando: chi ti vuol fottere e chi ti vuol ferire, per gusto o interesse.


E allora cominci a segnarti tutti i discorsi che fai con le persone che hai vicino, le parole che ritornano e le parole che vengono usate solo una volta, mai per caso. le cose che fanno, i posti dove vanno e le persone con le quali parlano. Allora inizi a fare caso a quando uno si tocca il naso, si gratta la testa, accavalla le gambe, rotea gli occhi, sbuffa, si scaccola, trattiene una risata o una scoreggia. Quando uno si ammala, quando l'altro gli vien la cacarella e quando quell'ultimo si rompe un braccio o fa un incidente.


E inizi a perdere il senso d'insieme, il senso di comunione, il senso di attaccamento: sei sormontato da milioni di dettagli che montano e montano e montano, fino a sommergerti di indizi che credi di mettere a posto secondo un filo logico tutto naturale e invece è l'unico filo logico possibile - quello della tua paura più profonda: le persone che hai attorno intendono abbandonarti, possibilmente fregandoti.


Per questa cricca di psico-delinquenti, il primo passo è individuare una frattura nel tuo animo, una paura. Il secondo è instillarti il sospetto che quella non sia una paura, ma una realtà. Punto di appoggio e leva. Paura e sospetto, ben orchestrati e mascherati. E questo porta all'inevitabile collasso delle relazioni, tanto amicali quanto familiari.

E ti convinci che la vita è una gara, e che devi dimostrare di arrivare dove gli altri non si aspettano. E che devi dimostrare che gli altri falliranno.

Quando invece gli altri sono lì che ti vorrebbero al loro fianco, così come sei. Per amarti e mettersi in discussione con te.


E' come l'anello di Frodo: dagli enormi poteri, che logorano l'anima di chi lo usa, fino a fargli cacciare il migliore amico, convinto che si sia pappato di nascosto tutto il Pandivia. Senza rendersi conto che Gollum si sta fregando le mani...


***


C'è che ho preso il coraggio a quattro mani e ho detto ad una certa persona che la ritengo un vero e proprio punto di riferimento. E che per questo non mi verrà facile misurarmi con i problemi che abbiamo avuto nella nostra fallimentare esperienza di coppia. Non è esattamente quello che si sarebbe voluta sentir dire, ma credo fosse importante farglielo sapere.


Perchè un punto di riferimento vuol dire qualcuno con il quale vuoi confrontarti, del quale sei desideroso di avere un'opinione, per poi scontrarti, discutere, cercare di fargli cambiare idea o anche no, approfondire, litigare magari.


Qualcuno di cui avere fiducia. Anche quando si sbaglia, anche quando ci si metterebbe le mani nei capelli per le cose dette o non dette, fatte o non fatte. Di cui fidarsi, di pancia, a pelle, senza alcuna riserva. Al di là degli errori.


Perchè avere un punto di riferimento significa avere qualcuno con il quale aver voglia di condividere qualcosa, che sia un'opinione, un'esperienza personale o un momento professionale, e poi ritornarci sopra e trarne qualcosa. Per quanto bella o dolorosa sia quell'esperienza.


Un punto di riferimento è qualcuno davanti al quale non hai preoccupazione di farti vedere perdente o vincente, ma sempre e solo come sei. Per metterti, e mettervi, in discussione.


E se con questo qualcuno hai avuto una storia d'amore che faceva acqua un po' dappertutto , beh... la cosa è importante in sé, ma può creare qualche disguido tecnico di comprensione e gestione...


***


C'è che al lavoro stiamo progettando come dei matti, e che ho la sensazione - condivisa nella Sala Acquario - che noi si stia scalando a grandi falcate la Scala dell'Autocoscienza professionale. Avevo il sospetto che i confini dell'Educazione ambientale mi sarebbero stati stretti, prima o poi. E sono contento di avere come guida e partner qualcuno in grado di lasciarmi abbastanza libertà per spararle grosse e abbastanza polso da tirarmi coi piedi per terra quando esagero. certo che la soddisfazione del lavoro ben fatto nelle ultime due settimane aleggia palpabile in ogni angolo dell'ufficio.


***


C'è che il cuore è sempre là... col broncio... perchè resta in disparte.


***


C'è che è la Festa di Liberazione. E il Re del Ferro e del Fuoco non passerà a trovarmi, per tutti i suoi motivi. E questo mi rattrista.


***


Resta la Festa di Liberazione, però.

E vanno ricordati i morti, e vanno ricordati vivi, come dice un amico fotografo. Per quello che hanno fatto, per i motivi per i quali l'hanno fatto: da una parte e dall'altra. Per ribadirne le dovute differenze.


E si festeggerà, con chi ha scelto di condividere una giornata, si spera, di sole: tra una canzone partigiana, una salamella, una bottiglia di rosso, e una bella discussione accesa sull'eredità della Resistenza.




giovedì 16 aprile 2009

Marzo a metà aprile







E mah è forse
è quando tu voli rimbalzo dell'eco
è stare da soli
è conchiglia di vetro, è la luna e il falò
è il sonno e la morte
è credere o no

margherita di campo
è la riva lontana è, ahi! è la fata Morgana
è folata di vento
onda dell'altalena
un mistero profondo
una piccola pena
tramontana dai monti domenica sera

è il contro è il pro
è voglia di primavera
è la pioggia che scende
è vigilia di fiera
è l'acqua di marzo
che c'era o non c'era

è si è no
è il mondo com'era
è Madamadorè
burrasca passeggera
è una rondine al nord la cicogna e la gru,
un torrente una fonte
una briciola in più
è il fondo del pozzo è la nave che parte
un viso col broncio
perché stava in disparte

è spero è credo
è una conta è un racconto
una goccia che stilla
un incanto un incontro
è l'ombra di un gesto,
è qualcosa che brilla
il mattino che è qui
la sveglia che trilla
è la legna sul fuoco, il pane, la biada,
la caraffa di vino
il viavai della strada


è un progetto di casa
è lo scialle di lana, un incanto cantato
è un'andana è un'altana
è la pioggia di marzo, è quello che è
la speranza di vita che porti con te
è la pioggia di marzo, è quello che è
la speranza di vita che porti con te

è mah è forse
è quando tu voli rimbalzo dell'eco
è stare da soli
è conchiglia di vetro, è la luna e il falò
è il sonno e la morte è credere no

è la pioggia di marzo, è quello che è
la speranza di vita che porti con te
è la pioggia di marzo, è quello che è
la speranza di vita che porti con te

(Ivano Fossati, La pioggia di Marzo)



mercoledì 15 aprile 2009

giovedì 9 aprile 2009

Le ultime libertà dell'uomo delle reti











A voler ben vedere, quel pezzo d'uomo che se ne stava curvo sulle reti non era malconcio come lo raccontavano. Passava dei gran giorni in mare, a strappare via i pesci dalle corde intrecciate e ne aveva il puzzo sulle mani, nell'alito, nei capelli - quelli che c'erano, quelli corti e ingrigiti che gli giravano attorno alla nuca e sfioravano le tempie. E' vero, aveva il passo malfermo, quando camminava sul molo, ma quell'andatura ondosa sembrava dargli l'innata capacità di passare tra la gente come l'acqua di riflusso tra gli scogli: senza che nessuno lo vedesse, senza che nessuno si accorgesse di lui. Eccetto, certo, per la scia di pesce che si lasciava dietro: ma in un porto, chi voltete che se ne accorga?

Era lì, che se ne stava accovacciato, a cacciar dentro le mani in una cassa gigante, tirando fuori un filo alla volta le sue reti immense, col volto corrucciato e attento. Ogni nodo sfatto, lo riannodava, ogni maglia strappata, la rammendava, ogni cordino intrecciato, lo disfava. E le dita, tozze e di marmo, parevano filare le corde come un ragno fila la seta: pareva che i fili uscissero dalla punta delle dita, come lacrime, una ad una, in un pianto silenzioso e incupito. A sentire la gente, non era un bello spettacolo averci a che fare. Quelle mani, che lavoravano sulle reti con la delicatezza del burro, sapevano spezzare un remo come fosse il collo d'un gabbiano e sapevano maneggiare i coltelli da intarsio con sicurezza e abilità ben note agli stomaci di chi aveva avuto la malaugurata idea di contraddirlo, nel corso degli anni.

Buono buono, se ne stava contemplando quella matassa che gli usciva dalle mani, con lo sguardo perso oltre le dita, oltre i fili, oltre le reti. Sicuramente pensava alla sera prima. Alla sera in cui, rientrato in porto, rientrato a casa, ad un certo punto s'era trovato più solo di quanto non fosse mai stato. Forse non ricordava bene che cosa fosse successo. O forse lo aveva ben chiaro ma i suoi occhi si rifiutavano di andare a cercare tra le pieghe dei ricordi. O forse preferiva perdere la vista in un insieme sfuocato di onde e riflessi di sole. Per non rivedere quegli occhi azzurri che si gli spegnevano tra le mani serrate, per non rivedere quelle labbra rosse storpiate da un grido strozzato.

Avremmo potuto restare a guardarlo per giorni. Le sue mani filavano ancora quando le nostre ombre gli coprirono il capo. Alzò la testa e con occhi scavati guardò dritto nei nostri. Il volto, i solchi e la pelle: tutto raccontava di mille storie e viaggi ed esperienze. Gli occhi, però, parevano vuoti. E le mani continuavano a filare. Un gioco di sguardi, tra noi e lui, e le mani, sistematiche, posarono attrezzi e reti con la cura di sempre. L'uomo delle reti si alzò, sovrastandoci. Tirò su le maniche della camicia ormai lisa, e tese avanti i polsi.

Abbiamo fatto scattare le manette, ben sapendo che comunque non sarebbe scappato.