"Le storie servono alla poesia, alla musica, all'utopia, all'impegno politico: insomma all'uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché in apparenza non servono a niente: come le poesie e la musica, come il teatro e lo sport... Servono all'uomo completo e, vorrei aggiungere, a completare un uomo."
Gianni Rodari


domenica 4 aprile 2010

Il nido pensile





L’uomo camminava sulle radici e sui tronchi con una destrezza invidiabile. Ormai non faceva più nemmeno caso al baratro che si apriva appena sotto. Era da tempo che non metteva il piede in fallo, che non rischiava di cadere, ed era da ancora più tempo che non gettava l’occhio laggiù, nel nero fondo del nulla che aveva sotto i piedi.

Un giorno di molto tempo prima la terra aveva tremato, proprio là dove l’uomo stava costruendo la sua casa. La terra aveva tremato e uno scisma colossale si era portato via il terreno da sotto i suoi piedi. Ad essere precisi s’era ingoiato tutta la casa e gran parte della foresta che c’era lì attorno. L’uomo allora era caduto. A corpo morto era caduto: giù, lungo il crepaccio incommensurabile. E mentre cadeva aveva gettato le mani alla rinfusa, afferrando qua e là delle radici che ancora sporgevano dalla parete del burrone. Le prime si spezzarono, restandogli tra le mani segnate. Altre nemmeno si accorsero della sua presa. Altre ancora invece lo aiutarono a rallentare la caduta, fino ad arrestarla. Il fondo della terra spaccata era così nero da non riuscire a vedersi, e l’uomo aveva tremato con ogni muscolo, con ogni cuore, con ogni goccia di sudore che ancora gli restava. Di scatto aveva strappato lo sguardo da quel terrore, volgendolo verso l’alto, costringendosi a non vedere quello che lo aspettava dietro le spalle e sotto i piedi, se solo avesse perso la presa. Coi denti, le unghie, gli alluci, le ginocchia e i gomiti, alla fine, cominciò una lunghissima risalita.

In verità era caduto così a fondo che il tempo impiegato per conquistare qualche tratto verso il bordo del precipizio fu lo stesso impiegato dalle radici e dalle piccole piante a strapiombo per crescere e diventare arbusti, e poi alberi. Così radice dopo radice e ramo dopo ramo, l’uomo aveva avanzato verso il bordo, sempre più vicino. Successe però che, piano piano, l’uomo smise di arrampicarsi e cominciò a spezzare e tagliare rami e tronchi e liane per sistemarli come meglio poteva: all’inizio per facilitare l’ascesa, poi per cercare acqua e ristoro, più in là per fermarsi a riposare. Ecco allora che le radici e le liane e gli alberi che avevano frenato la sua caduta divennero col tempo il suo nido pensile.

Ora l’uomo camminava sulle radici e sui tronchi con una destrezza invidiabile. Tempi e giorni e stagioni gli erano occorse per acquisire quell’abilità: di ogni pezzetto di legno sapeva soppesare la portata con uno sguardo e laddove percepiva una mancanza - o laddove ci fosse anche solo il minimo sospetto di riuscire a intravedere il nero vuoto sottostante - l’uomo correva istintivamente ai ripari ponendo nuovi rami, nuove travi, nuove liane. Il rifugio era diventato tanto immenso e articolato da toccare l'altro lato del burrone, mentre l’uomo passava le sue giornate a saltare da un ramo all’altro per sistemare, qui e là, questo o quel pezzo. Fu proprio durante una di queste operazioni che successe. Arrivando per rinforzare un pavimento ancora troppo sottile, l’uomo poggiò rami e frasche su uno dei rami portanti: con uno schianto il ramo si spezzò. Con un soffio sordo e frusciante, gran parte della pavimentazione del rifugio fuggì verso il baratro.

E l’uomo si ricordò della terra che aveva tremato. Della terra che aveva ceduto. E fissando finalmente il baratro fin nella sua anima scura e senza fondo, l’uomo cominciò ad alleggerire il nido.




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