"Le storie servono alla poesia, alla musica, all'utopia, all'impegno politico: insomma all'uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché in apparenza non servono a niente: come le poesie e la musica, come il teatro e lo sport... Servono all'uomo completo e, vorrei aggiungere, a completare un uomo."
Gianni Rodari


lunedì 29 settembre 2008

La leggenda del vecchio stupido indiano





Un vecchio stupido indiano era solito andare a caccia solo. Non che non gli piacesse stare con gli altri indiani, ma un po' lo infastidivano i loro schiamazzi, un po' lo infastidivano gli sguardi d'intesa dai quali si teneva fuori, un po' lo infastidivano le parole vuote e blaterate, e un po' lo infastidivano i commenti degli altri cacciatori. Perchè il vecchio stupido indiano cacciava solo volpi.


Da sempre, al vecchio stupido indiano interessava starsene da solo, inventare i propri racconti, disegnare le proprie avventure e, con quelle, stupire un qualche passante che incrociava la sua strada, di tanto intanto. Lo conoscevano tutti, il vecchio stupido indiano, ma nessuno sapeva bene che cosa avesse per la testa.


Era capitato, tempo prima, che l'indiano - allora più giovane e più ingenuo - si trovasse a caccia tutto solo, intento ad inseguire non si sa bene se una lepre o un capriolo. Correndo per il sottobosco, il giovane vecchio indiano si imbattè in una volpe. Una volpe bellissima, fulgida e profumata di selvatico, con gli occhi accesi e vividi. Una volpe ferita, con una zampa imprigionata in una tagliola. Una volpe stremata, ma ancora così accesa di rabbia da ringhiare e agitarsi nervosamente.


Il giovane vecchio indiano se ne innamorò perdutamente. Si tolse la giacca di pelle e vi avvolse la volpe e la tagliola. Facendo ben attenzione a coprire gli occhi della bestiola, così che si calmasse un poco. Sollevatala, la portò con sè in una radura isolata e lì costruì una tenda. Vi portò tutte le erbe medicinali che conosceva e con una pazienza incredibile aiutò la volpe a togliersi dalla tagliola e a far guarire i profondi tagli che le laceravano le zampe. La volpe cercò ripetutamente di mordere la mano del giovane vecchio indiano, ma questi non la spostò mai. Si lasciò mordere tutte le volte, finché i morsi non si trasformarono in flebili leccate.


Il tempo passò, e il giovane vecchio indiano invecchiò un poco. E la volpe, ancora zoppicante, con lui. Non uscivano mai soli e non si allontanavano mai troppo dalla radura. Il suo amore per quella coda e quegli occhi che di notte si accendevano erano ormai cosa nota. E tutti cominciavano a dire che il vecchio indiano non era mica tanto a posto, che una volpe è una volpe e le volpi non si addomesticano mai, anche se sono meno pericolose dei lupi. Insomma, il vecchio indiano diventò il vecchio stupido indiano, dal cuore annebbiato e dalla mente fuori asse.


Un giorno, la volpe, che aveva quasi smesso di zoppicare, uscì da sola dalla tenda. Attirata da un rumore sconosciuto quanto curioso, si diresse verso il limitare del bosco. Al limitare del bosco, si spinse fin'oltre i primi arbusti. Dai primi arbusti fino alle grandi querce. E arrivata lì non si voltò più indietro. Il vecchio stupido indiano si alzò di soprassalto e non vedendo l'amata volpe al suo posto, uscì in fretta dalla capanna e ne seguì le impronte. Riuscì a vedere dove l'amata si era fermata per voltarsi. Una, due, tre volte. Riuscì a distinguere quando l'amata aveva ripreso la corsa. Una, due, tre volte. Sempre più a lungo, sempre più veloce. Senza più fermarsi.


Non si sa bene quanto tempo lo stupido vecchio indiano sia rimasto nel bosco, girando ogni pietra e invocando il nome della sua volpe ad ogni foglia calpestata. Si sa solo che da allora, il vecchio va a caccia esclusivamente da solo. E caccia esclusivamente volpi. Le avvicina e prova ad accarezzarle. Quelle che si lasciano accarezzare, le lega ad un albero. Quelle che lo mordono, porge loro l'altra mano.




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