"Le storie servono alla poesia, alla musica, all'utopia, all'impegno politico: insomma all'uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché in apparenza non servono a niente: come le poesie e la musica, come il teatro e lo sport... Servono all'uomo completo e, vorrei aggiungere, a completare un uomo."
Gianni Rodari


sabato 15 marzo 2008

Tout comprendre n'est pas tout pardonner, ossia Per un accenno alla Pedagogia della Resistenza





Me ne stavo impalato appena fuori dalla cappella delle Carmelitane a Dachau, nel monastero costruito a ridosso del campo di concentramento. Avevo appena incrociato lo sguardo di una vecchia signora che camminava adagio, aggrappandosi al braccio di suo marito. Avevano le lacrime agli occhi, mentre pregavano assieme.

Con un groppo alla gola, mi ero fermato a riflettere che far germogliare un pensiero di unione e compassione proprio dove l'uomo ha tolto senso persino alla morte è uno degli atti più coraggiosi che possano essere fatti. Al di là di qualsiasi credo o religione.

Ero lì che ragionavo di questo, frenando il groppo e le lacrime per non farmi vedere dai piccoli pesciolni che stavo accompagnando, quando un gruppetto di loro mi si avvicina per chiedere spiegazioni.

Non capiscono. Non sanno dove sono. Non riescono a trovare un senso a tutto quello che vedono. Non riescono a vedere le cose che sono successe in questi luoghi.

Allora inizio a parlare, e raccontare quello che altri hanno raccontato e testimoniato a me tempo prima.

Inizio dicendo che nei campi di concentramento il lavoro rendeva liberi, certo, ma liberi da ogni dignità, da ogni identità, da ogni barlume di ragione o senso.

Dico che nei campi di concentramento si veniva spogliati non solo dei peli e dei vestiti, ma anche di quel sottile velo che sta attorno all'anima delle persone e che da un senso alla vita.

Dico che le persone, nei campi di concentramento, erano fatte lavorare senza senso, solo per instaurare e mantenere una costante pressione emotiva.

Dico che questa pressione prima ti manda fuori di cervello, poi ti culla in uno stato di perdizione, nel quale nulla sembra più accadere per caso e le persone iniziano a sentirsi in colpa solo per il fatto di esistere. L'annullamento dell'uomo in quanto uomo. L'annullamento del senso della vita.

E poi dico che nei campi di concentramento si moriva senza motivo, e si moriva a migliaia, come le mosche. Si moriva sparati in testa e arsi ancora vivi nelle fosse comuni. Si moriva nelle docce a gas, si moriva di stenti perchè il freddo rompeva le ossa e il respiro. Si moriva così, tanto perchè c'era qualcuno che aveva voglia di ammazzarti o lasciarti morire. L'annullamento della morte.

Dico che tutti gli esseri umani, quando subiscono un lutto, come prima cosa si chiedono - sempre - Perchè. Perché è successo? Perché proprio ora? Perché proprio a lui o a lei? Perché non a me? E solo quando, a furia di farsi queste domande, riesce a darsi una risposta si può dire che sia riuscito a "rielaborare il lutto": solo allora può raccogliere i cocci di quella esperienza e ricavarne qualcosa di nuovo, che porti con sé il vento dell'esperienza e il sole del futuro.

E mentre dico queste cose sento quasi di non essere io a parlare. Sento l'aria del campo che geme tra i tigli cipressini del viale delle baracche, sento il filo spinato del muro di cinta che si tira e si torce, sento il terreno sotto i piedi che mi spinge a camminare e a parlare.

E allora mi accorgo.

Mi accorgo che tutti i discorsi attorno alla Shoa, tutte le visite ai musei della resistenza, tutti viaggi dentro i campi di concentramento e le Giornate della Memoria sono in realtà la più grande rielaborazione del lutto collettiva della Storia.

Non so perchè, ma pensarla così mi ha aiutato a mandar giù il magone.

Forse perchè ho cominciato a sperare che, anche in un domani lontano, tutto quello che laggiù e allora ha perso qualsiasi senso o ragione, possa diventare qualcosa sulla quale costruire fondamenta nuove.




Poco dopo, mentre ero sul pullman verso l'ostello ho ricevuto - e prontamente letto al microfono - questo messaggio via sms, da una persona speciale:

"Io penso che ci siano posti nel mondo - a me è successo a Gerusalemme davanti ad un check point e alla Diaz, il giorno dopo - dove paradossalmente ti senti in colpa di essere vivo, o di essere felice. Ma invece penso che essere uno dei milioni di piedi che calcano di nuovo quella terra, con la fortuna poi di uscire dal cancello e tornare alla tua felicità, sia il modo migliore per lasciare un'impronta di consapevolezza".



E su che cosa voglia dire "fare della Pedagogia della Resistenza", leggete qualcosa di Raffaele Mantegazza.





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