"Le storie servono alla poesia, alla musica, all'utopia, all'impegno politico: insomma all'uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché in apparenza non servono a niente: come le poesie e la musica, come il teatro e lo sport... Servono all'uomo completo e, vorrei aggiungere, a completare un uomo."
Gianni Rodari


domenica 25 gennaio 2009

Ormeggi






La nave aveva viaggiato a lungo, l'anno passato. Ne portava i segni. Le vele erano state rattoppate troppe volte, e la chiglia era segnata laddove il mastro falegname aveva chiesto agli uomini di dare qualche mano in più di pece, per rattoppare le assi che aveva inchiodato sulle falle. Il sale, nascosto nel vento, aveva mangiato le funi: grosse come le braccia d'uno scaricatore, erano ormai lise e gonfie, proprio dove erano rimaste più esposte agli agenti del tempo. La ruota del timone cigolava e il timone sembrava davvero aver conosciuto tempi migliori: qualche secca di troppo, qualche barriera corallina avvistata malamente, e le protezioni in ferro avevano potuto fare ben poco per mantenerlo sull'asse.



Anche gli uomini apparivano scarni e scavati. Indeboliti. Tutti quanti se ne stavano appoggiati al corrimano del ponte, a presentarsi alla città: chi col cappello in mano, chi la testa girata e lo sguardo ancora verso il mare aperto. E mentre la nave entrava nel porto, le loro signore, che li aspettavano da più di tre anni, a vedere quegli sguardi tetri e cupi svenivano come mosche in pieno inverno. Lungo il molo era tutto un accasciarsi a terra di donnine con grandi scialle scuri sui capelli, e subito le comari a fare largo e a fare aria, che si riprendessero: i mariti, i figli e i nipoti stavano finalmente rientrando a casa, che si dessero un contegno!



C'era un che di solenne, nell'incedere di quella vecchia nave. Saranno stati i piccoli e robusti rimorchiatori, dai quali sia alzava la cantilena dei vogatori. Saranno stati gli odori di terre lontane che si spandevano dalle casse ammassate sul ponte, impregnate dell'odore acre del grasso di balena trasformato in olio. Saranno stati proprio quei marinai, feccia del mondo, col loro carico d'ansia per la terraferma tatuato nello sguardo e sulla pelle. Reietti e relitti, rottami di legno gettati tra le onde, che tra le onde volevano rimanere, foss'anche fino ad inabissarsi.



E su tutti gli sguardi carichi di riverente timore nei confronti della terraferma, uno più di tutti incuteva rispetto e paura in chi avesse il coraggio d'incrociarlo: quello del Capitano. Egli non aveva donne che lo aspettavano laggiù sul molo, eppure quante caddero a terra disperate leggendo in quel buio assoluto i nomi dei marinai che non avrebbero fatto ritorno. Egli non aveva un rifugio nel quale fermare il rollio delle sue ossa e delle sue carni, e neppure uno dei presenti ad accoglierlo avrebbe pensato d'offrigliene uno.



E lo sguardo del capitano si fissava sui volti della gente, trapassandone le pieghe e la carne, per perdersi altrove, ben più lontano ben più in là di quel maledetto porto che metà della sua ciurma chiamava casa e l'altra metà accettava come tale, che s'era scordata dove fosse la propria.



Ma c'era qualcosa che tradiva tanta serietà, tanto distacco e tanta spocchia nei confronti della terraferma. Qualcosa che lo sguardo riusciva a celare, ma che non altrettanto bene facevano i visi e le mani, e i piedi. Sì, perché tanto gli sguardi dei mariani e del Capitano erano solidi e irremovibili nelle proprie fantasie di lungo corso, così le mani torcevano irriverenti i cappelli tra le dita, e i piedi facevano danzare quei corpi rigidi al ritmo di una frenesia tutta loro: lontana dai ritmi delle onde, e ben più vicina a quelli delle fisarmoniche e dei violini che sapevano avrebbero suonato, di lì a poco.



E a stento si tenevano anche i sorrisi.



Quando di lontano vedevano un volto, una mano, una nuca a loro famigliare, quel pezzo di ghiaccio che avevano ormai per cuore cominciava a creparsi. E quella voglia smodata di tornarsene in alto mare, e quel timore reverenziale che li prendeva quando rimettevano piede a terra, semplicemente si ritiravano come marea. Rientravano in qualche baule dell'anima. In qualche buio anfratto nascosto in fondo alle viscere, o al cuore: a seconda di dove preferissero tenerlo.



E quando poi, gettate le funi e ancorata la nave, il Capitano gridò Tutti a terra! La ciurma lo guardò come rapita, come svegliata di soprassalto dai più profondi pensieri. E gli sguardi ripresero colore. E videro, per un attimo senza comprendere, il Capitano immortalato contro il sole nell'atto di gettare in aria il suo cappello buono, lo sguardo e la mano verso il cielo e il sorriso largo stampato dietro la barba.



E furono cornamuse, tamburelli, fisarmoniche, e baci e amore per tutta la notte.

E il giorno dopo,

E il giorno dopo ancora.







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