"Le storie servono alla poesia, alla musica, all'utopia, all'impegno politico: insomma all'uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché in apparenza non servono a niente: come le poesie e la musica, come il teatro e lo sport... Servono all'uomo completo e, vorrei aggiungere, a completare un uomo."
Gianni Rodari


lunedì 26 gennaio 2009

Note a margine d'un'intensa giornata al Parco Ticino




Nonostante mi aspetti una notte praticamente insonne e nonostante io sia in piedi dalle sei, non posso non rubare al sonno anche questi minuti. Perchè la giornata di oggi mi ha confermato che sto navigando nella giusta direzione.

Una direzione tracciata sulla rotta di anni spesi a chiedermi quale fosse il posto giusto per poter fare qualcosa di utile e di sentito, un angolo di mondo al quale donare passione anima ed idee, un angolo di cielo al quale gridare che le cose si possono e si devono cambiare. I corridoi in università, le piazze di Città di Nebbiascura e Città dei Vicoli, i tappeti nelle camere dei grandi amori, le camere di Chapou nella Ville Rose, i futon delle persone argute e intellettualmente riottose... Tutti quei lembi di vita che ho speso a cercare un posto nel mondo stanno andando lentamente al loro posto. E se anche è presto per cantare vittoria, un sorriso largo e sincero s'è stampato sul mio volto e difficilmente me lo si toglierà.


Arrivo dalla prima giornata di formazione come Guida naturalistica del Parco lombardo della Valle del Ticino. Un corso che, per mancanza di volontà da parte della Presidenza e per mancanza di vil danaro è rimasto in sospeso per troppi anni. La partecipazione di 74 aspiranti guide ne da una misura piuttosto significativa. Se da un lato, questa è stata un po' una pecca per l'amministrazione, dall'altro ha permesso alla dirigenza del parco (quella operativa) di affrontare - oltre ai problemi quotidiani che ha una realtà tanto complessa come quella della Valle del Ticino - tematiche fondamentali sul significato ultimo dell'Educazione ambientale e sui suoi strumenti.



Durante la mattinata, il direttore del parco, Dario Furlanetto, ha fatto una interessante carrellata sui motivi (e le dinamiche) che hanno spinto svariate popolazioni nel corso degli ultimi 160 anni a creare e fondare altrettante "Aree protette", con finalità e intenti sempre diversi. Dai primi parchi nazionali statunitensi (dei primi dell'800, intesi come protezione totale della natura al suo stato originario), fino alla creazione dei parchi italiani ed europei (che invece hanno da sempre fatto i conti con una serie di "neo-ecostemi", ossia una Natura tanto antropizzata da aver creato nature che non esistevano e che non potrebbero esistere senza il mantenimento di determinate azioni antropiche).


Un esempio su tutti, le cosiddette "marcite" - gli specchi d'acqua che inondano i campi a maggese, tipici della fascia delle risorgive nell'alta Pianura padana. Quattro o più secoli di canalizzazione e deviazione delle acque hanno fatto sì che si creassero ecosistemi inesistenti, perfettamente integrati con quelli esistenti in precedenza e indissolubilmente legati a manifestazioni culturali ed economiche locali. Riso, formaggi e bistecche, ad esempio. Che a loro volta si legavano a fiere, feste, canzoni e leggende.
Persi i lavori, si perdono le marcite e si perdono i prodotti. Ma si perdono anche gli animali e le piante ad essi legati.
Allo stesso modo, intaccare la biodiversità di quelle aree significa intaccarne l'economia e il ciclo di vita (tanto socio-economico quanto ambientale). Con le ripercussioni ecologico-sociali immaginabili in un'area fondamentale come può esserlo un corridoio ecologico della portata del Ticino.

Insomma – aggiungo io – un vero e proprio cambiamento di prospettiva: dalla visione cartesiana Res Cogitans Vs Res Extensa (la buona vecchia contraddizione Uomo Vs Natura e tutta la scuola di pensiero riduzionista, sfociata nel Rasoio di Occam), ad un sorpasso epistemologico - ancora in atto e non digerito - oltre lo strutturalismo, verso il paradigma della complessità (si vedano Tim Ingold ed Edgard Morin, inconsapevolmente ma magistralmente ripresi da Alain Weisman ne "Il Mondo senza di noi", anche se l'ultimo capitolo forse si poteva evitare).

Come dire, se in alcuni casi la Natura deve essere preservata così come abbiamo evitato di intaccarla, in altri casi dobbiamo preservare quello che le abbiamo fatto e quello che ne abbiamo fatto.


Durante il pomeriggio, con Francesco Magna, si è invece disquisito su quali siano le motivazioni alla base del fare educazione ambientale. E anche in questo caso, la complessità ha tenuto banco. La complessità intesa come ambito nel quale un educatore ambientale deve poter e voler catapultare i soggetti che aderiscono ad un progetto: siano essi studenti, insegnanti, famiglie o cittadini.


Complessità – riflettevo – come presa di coscienza che le scienze non sono più in grado di dare risposte univoche a problemi universali, ma solamente soluzioni mediate dall'esperienza diretta, dal background culturale, dalla mentalità di chi le inventa - da qui i dibattiti sempre più accesi tra gli estremismi scientifici: "Se non sono più d'accordo tra loro, noi a chi ci affiadiamo?" Non è forse questa una delle domande che ci si sente più spesso rivolgere dalle "personi comuni"?


La complessità intesa come campo di sperimentazione, di ricerca continua, di applicazione locale di nuove idee e soluzioni, di esperienza diretta, di (com)partecipazione attiva di portatori d'interesse e decisori, di progettazione collettiva, di saperi che non siano più solamente scientifici, ma saperi del fare, del quotidiano, delle piccole cose.


La complessità di quelle tradizioni che non sono mai state tali. Perchè sono sempre state il frutto di un intrecciarsi continuo di ciò che era territorio e ciò che era realtà quotidiana, in un perenne cambiamento: un equilibrio dinamico che procede con il procedere della vita - dalle migrazioni avicole, alle migrazioni floreali, alle migrazioni umane.
Un equilibrio che deve essere compreso nella sua interezza e per il quale si possono cercare sperimentazioni che portino ad uno sviluppo virtuoso di elementi sistemici (aperti, complessi ed integrati) quali la natura e la società.

E' stata una sostanziosa riflessione sullo sviluppo sostenibile.

E sulla educazione ambientale come educazione alla sostenibilità.
Non più un'educazione sull'ambiente (meramente nozionistica e semplicistica).
Non più solamente un'educazione per l'ambiente (che punti alla preservazione tout court).
Ma anche un'educazione attraverso l'ambiente, una educazione alla complessità che invogli la ricerca di soluzioni alternative a partire dalle risorse che ogni singolo può attingere dalla comunità, verso soluzioni complesse e sostenibili.




Complessità.




La mia parola per il 2009.







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