"Le storie servono alla poesia, alla musica, all'utopia, all'impegno politico: insomma all'uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché in apparenza non servono a niente: come le poesie e la musica, come il teatro e lo sport... Servono all'uomo completo e, vorrei aggiungere, a completare un uomo."
Gianni Rodari


giovedì 9 aprile 2009

Le ultime libertà dell'uomo delle reti











A voler ben vedere, quel pezzo d'uomo che se ne stava curvo sulle reti non era malconcio come lo raccontavano. Passava dei gran giorni in mare, a strappare via i pesci dalle corde intrecciate e ne aveva il puzzo sulle mani, nell'alito, nei capelli - quelli che c'erano, quelli corti e ingrigiti che gli giravano attorno alla nuca e sfioravano le tempie. E' vero, aveva il passo malfermo, quando camminava sul molo, ma quell'andatura ondosa sembrava dargli l'innata capacità di passare tra la gente come l'acqua di riflusso tra gli scogli: senza che nessuno lo vedesse, senza che nessuno si accorgesse di lui. Eccetto, certo, per la scia di pesce che si lasciava dietro: ma in un porto, chi voltete che se ne accorga?

Era lì, che se ne stava accovacciato, a cacciar dentro le mani in una cassa gigante, tirando fuori un filo alla volta le sue reti immense, col volto corrucciato e attento. Ogni nodo sfatto, lo riannodava, ogni maglia strappata, la rammendava, ogni cordino intrecciato, lo disfava. E le dita, tozze e di marmo, parevano filare le corde come un ragno fila la seta: pareva che i fili uscissero dalla punta delle dita, come lacrime, una ad una, in un pianto silenzioso e incupito. A sentire la gente, non era un bello spettacolo averci a che fare. Quelle mani, che lavoravano sulle reti con la delicatezza del burro, sapevano spezzare un remo come fosse il collo d'un gabbiano e sapevano maneggiare i coltelli da intarsio con sicurezza e abilità ben note agli stomaci di chi aveva avuto la malaugurata idea di contraddirlo, nel corso degli anni.

Buono buono, se ne stava contemplando quella matassa che gli usciva dalle mani, con lo sguardo perso oltre le dita, oltre i fili, oltre le reti. Sicuramente pensava alla sera prima. Alla sera in cui, rientrato in porto, rientrato a casa, ad un certo punto s'era trovato più solo di quanto non fosse mai stato. Forse non ricordava bene che cosa fosse successo. O forse lo aveva ben chiaro ma i suoi occhi si rifiutavano di andare a cercare tra le pieghe dei ricordi. O forse preferiva perdere la vista in un insieme sfuocato di onde e riflessi di sole. Per non rivedere quegli occhi azzurri che si gli spegnevano tra le mani serrate, per non rivedere quelle labbra rosse storpiate da un grido strozzato.

Avremmo potuto restare a guardarlo per giorni. Le sue mani filavano ancora quando le nostre ombre gli coprirono il capo. Alzò la testa e con occhi scavati guardò dritto nei nostri. Il volto, i solchi e la pelle: tutto raccontava di mille storie e viaggi ed esperienze. Gli occhi, però, parevano vuoti. E le mani continuavano a filare. Un gioco di sguardi, tra noi e lui, e le mani, sistematiche, posarono attrezzi e reti con la cura di sempre. L'uomo delle reti si alzò, sovrastandoci. Tirò su le maniche della camicia ormai lisa, e tese avanti i polsi.

Abbiamo fatto scattare le manette, ben sapendo che comunque non sarebbe scappato.

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