
La canzone si lasciava cantare. Lievi lievi, le parole si appendevano alle note, si lasciavano cadere e si aggrappavo di nuovo agli accordi che volteggiavano sopra il prato.
La canzone era tranquilla, sorridente, senza pretese. Era una canzone soddisfatta, come l'omino che la cantava: sdraiato su una coperta di tela a guardare le stelle col naso per aria.
La canzone cantava di un qualche bel viaggio appena finito, delle persone meravigliose che avevano calcato la stessa terra dell'omino, e delle piccole grandi esperienze che avevano messo insieme.
Un bel gruppo di perditempo con un piccolo sogno e tanta passione da mettere in gioco: alla ricerca di Verità che nessuno può dare per certe e di Risposte che non danno alcuna sazietà.
La canzone si lasciava cantare. E la voce roca raccontava, tra un giro e l'altro, la fatica di quei giorni: spesi sotto un sole che sembrava non voler mai tramontare, che dalla mattina presto presto alla sera tardi tardi splendeva e risplendeva sul lavorio incessante dell'omino, delle sue mani, dei suoi occhi, dei suoi piedi.
La canzone si lasciava cantare. E l'omino lo sapeva.
Sdraiato com'era su una coperta di tela a guardare il cielo che si faceva stellato, e dal rosso-tramonto al blu-senza-fretta.
Aspettava qualcuno, l'omino. E la canzone lo sapeva.
E si lasciava cantare.
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